Addio a Tonino Calcagni, il pittore della juta e del gesso
Se n’è andato in punta di piedi, dopo tante sofferenze, quel pittore autodidatta che amava immortalare certi scorci della nostra città su pezzi di juta intonacati con gesso. L’effetto era particolare ed efficace, con quei colori a tempera o acrilici impressi su quella superficie liscia, quasi un affresco staccato dal muro e trasportato su juta. La juta dei sacchi del caffè, preziosi contenitori durante la raccolta delle olive che facevano pensare alla rudezza graffiante del primitivo saio di San Francesco d’Assisi.
Tonino era un artista dei vicoli, del quartiere medievale intorno alla chiesetta trecentesca di Sant’Antonio abate, degli appartamenti grandi quanto basta, dei laboratori a piano terra tenuti per secoli e generazioni da falegnami, fabbri, maniscalchi, calzolai, fornai…
Me lo ricordo, il suo tinello da artista semplice ed efficace lungo la discesa tra piazza Padella e via Furio. Mi ricordo soprattutto il suo sguardo sereno e cordiale di gran lavoratore con la passione per la pittura.
La sua generazione annoverava tanti artisti che dovettero sgomitare parecchio, per mostrare le proprie capacità creative e figurative. E nella nostra mentalità, i primi oppositori li trovavi tra le mura domestiche, in una società che aveva fretta di ricostruire tutto dopo la seconda guerra mondiale e considerava una passione come la pittura una perdita di tempo, se non un segno di ridicola debolezza.
Era la generazione di Guido Di Vito, classe 1938, che da idraulico dovette sgomitare e mandare giù non pochi rospi prima di potersi affermare come giornalista. Forse era per questo, forse era perché erano amici e Guido aveva almeno un dipinto di Tonino su gesso e juta incorniciato, che li ho sempre associati l’uno all’altro.
Figli e padri di un popolo per il quale l’artista, il creativo veniva visto con occhi di pacata derisione, raramente con ammirazione.
Eppure, a dispetto di ciò, le passioni sia di Guido che di Tonino hanno giustamente trionfato.
Luca Leoni