Le recentissime manifestazioni studentesche in occasione della fine violenta dello studente friulano in una fabbrica collaborante con un istituto scolastico hanno per la prima volta fatto schizzare alla luce dell'opinione pubblica qualcosa di tutt'altro che nuovo, su cui mi pare importante parlare seriamente.
Anni or sono ebbi occasione di entrare in un locale di lavoro in uno di questi istituti, ed alla fine chiesi se gli studenti che vi lavoravano, e che con ciò producevano qualcosa che la scuola vendeva (in quel caso latticini) fossero retribuiti. “No” mi risposero gli insegnanti. In seguito ho saputo che tale rapporto di lavoro era diffuso a livello nazionale, non so se sempre e dovunque: nel caso qualcuno volesse obiettarmi con casi in cui gli studenti -lavoratori sono retribuiti, sarò felice di prenderne atto.
Una premessa. Ritengo che questa integrazione pratica alla teoria sia, in sé e per sé, indiscutibilmente ottima, perché nulla prepara ad una futura attività meglio della pratica. Il punto discutibile può essere invece: è giusto non retribuire un lavoro produttivo, cioè che io studente-lavoratore investa il mio tempo e la mia energia per aggiungere valore a dei materiali che tu istituzione venderai incassandone del denaro, e che io non debba aver niente di quel danaro?
La spiegazione del “sì” che un economista potrebbe esprimere potrebbe essere:” E' giusto, perché l'imprenditore ti rende il servizio di prepararti al lavoro, e non vuole neanche essere pagato, quindi zitto e buono”. A questo punto il dibattito poterebbe continuare all'infinito, e quindi preferisco chiuderlo, per calarlo da un mondo teorico al “qui ed ora”. Qui ed ora, a partire da un livello sociale anche alto, è diffuso l'impoverimento, il che vuol dire, ai livelli sociali più bassi, un passaggio dalla ristrettezza alla povertà, ed addirittura dalla povertà alla miseria.
In altre parole sempre più famiglie cominciano a veder svuotato il portafoglio prima, o molto prima, della fine del mese. Se la famiglia ha un figlio iscritto ad un istituto superiore si trova davanti un percorso ad ostacoli, in parte imprevisti, per superare ognuno dei quali deve pagare. Libri voluminosissimi e costosissimi, in gran parte inutilizzati, tasse d'iscrizione in crescita, quote per partecipare a gite scolastiche e varie altre iniziative. Se i figli sono più di uno, la cifra x va moltiplicata. L' unica misura ufficiale, per venir incontro alle famiglie meno abbienti, è quella del rimborso delle spese per l'acquisto dei libri; per esperienza personale (non a Velletri) soprattutto dopo le misure anticovid, le difficoltà di presentazione della domanda e per seguirne l'iter, quindi di conoscere la durata del tempo per ricevere il rimborso si sono dimostrate insuperabili, quindi questo ammortizzatore sociale funziona poco. A fronte della soprascritta serie di esazioni s'erge quel paragrafo della Costituzione che sancisce la gratuità dell'istruzione pubblica. E, sulla base di questo così disatteso, e non solo adesso, principio, mi sembra di buon senso cogliere l'occasione dell'attenzione sul tema “scuola-lavoro” per riparare, almeno in parte, alla situazione.
Esistono ministeri, e di grande peso, ai quali attingere una quota d'un anche modesto salario a questi ragazzi: oltre al capofila, quello della Pubblica Istruzione, quelli della attività produttive, dello sviluppo economico, e magari qualche altro. La quota integrativa dovrebbe esser fornita dal datore di lavoro che fruisce della prestazione dello studente-lavoratore. A parte tante ragioni di carattere morale, civile, sociale, ce n'è una economica: quasi tutti gli imprenditori sono, come nota Travaglio, “prenditori”, cioè fruitori di grossi aiuti statali che concorrono alla formazione del loro profitto privato: ora che questo danaro pubblico, che è quello delle nostre tasse, venga usato per un fine pubblico è inoppugnabilmente cosa equa, socialmente utile, totalmente armonizzata a quel primato del bene comune su ogni altra considerazione, che anima la Costituzione. Ad uno sforzo di buona volontà che certo non manderebbe in malora lo stato-come molti ancor più certamente salterebbero su a preconizzare- corrisponderebbe un vantaggio collettivo difficilmente misurabile: il ragazzo che, se bencreato, sente come naturale e necessario, a sedici-diciottanni, lo slancio d'esser elemento trainante dell'economia familiare, di risparmiare al povero papà l'angustia della richiesta di danaro, e non può farci niente, con questo anche piccolo salario potrebbe pagarsi da solo la ricarica telefonica o l'abbonamento all'autobus per andare a scuola, offrire la pizza alla ragazzetta, comprarsi un libro interessante. Ed avrebbe anche la prova provata che la società, o lo stato, o gli altri gli danno un valore, e non dovrà aspettare ancora chissà quanto. Ed anche la famosa economia reale non avrebbe che da guadagnarci.