Ancora sul controllo occulto del lavoratore ai fini del licenziamento

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La Cassazione ha ritenuto legittimo, ai fini del licenziamento, il controllo occulto del lavoratore da parte di un’agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro. Nel caso di specie si è trattato di verificare il mancato svolgimento della prestazione lavorativa nei termini in cui era dovuta. Il lavoratore ha pagato con il licenziamento l’abitudine di fermarsi al bar oltre il tempo necessario a fare la colazione e ad espletare i “bisogni fisiologici”. Questa abitudine, senza che l’assenza venisse registrata nei fogli delle presenze è stata considerata una truffa.

LA VICENDA

Un operatore ecologico, che aveva anche compiti di coordinamento del lavoro dei colleghi, in base al rapporto dell’investigatore, “unitamente a due colleghi, si dedicava preordinatamente e quale prassi tanto costante quanto illegittima, ad incontri all’interno di esercizi commerciali in orari di lavoro”.

Incontri che non si limitavano al tempo necessario a ristorarsi ma i colloqui continuavano all’interno e all’esterno degli esercizi commerciali “dove il dipendente trascorreva gran parte delle pause non autorizzate”.

Il giudice di primo grado, “pur ritenendo sussistenti i fatti contestati, aveva ritenuto comunque illegittimo il recesso per difetto di proporzionalità della sanzione”.

La Corte di Appello di Catanzaro, pronunciandosi sull’appello proposto dal datore di lavoro, ribaltando la prima decisione ha respinto tutte le doglianze contenute nell’atto di opposizione del lavoratore ed ha ritenuto che “il sostare costantemente in luoghi pubblici per tempi irragionevoli a degustare consumazioni e chiacchierare con i colleghi, con l’inevitabile percezione da parte del cittadino di tale deprecabile prassi, finisse per arrecare pregiudizio al decoro aziendale e alla immagine che di essa si crea nella cittadinanza”.

Le reiterate violazioni dei doveri di ufficio “erano tanto più gravi per il ruolo apicale rivestito all’interno dell’azienda, con funzioni di responsabilità e coordinamento di altri dipendenti nell’ambito di un servizio di particolare importanza quale quello della raccolta dei rifiuti”.

Di conseguenza, la Corte territoriale ha ritenuto che il licenziamento fosse legittimo e “proporzionato”, in quanto la condotta assumeva gli aspetti penali del reato di truffa.

Infatti, “il mancato svolgimento della prestazione lavorativa nei termini in cui era dovuta, per avere il lavoratore goduto di reiterate pause decise unilateralmente e arbitrariamente, seguita da inveritiere attestazioni dei fogli di servizio dell’integrale osservanza dell’orario pattuito, ha determinato l’ingiusta percezione di una retribuzione parzialmente non dovuta con correlativo danno per l’azienda”.

Ha, infine, precisato: “ad ogni modo, pur prescindendo dalla configurabilità del reato di truffa, la complessiva condotta come sopra descritta, in quanto idonea a raggirare il datore di lavoro che fa affidamento sul corretto svolgimento della prestazione, costituisce fatto che, anche per via della sua sistematicità, è idoneo a recidere il vincolo fiduciario”.

I giudici della Corte di merito hanno ritenuto legittimo il licenziamento soprattutto in relazione all’entità del tempo trascorso chiacchierando, considerato che le assenze dal lavoro (pause) “non duravano il tempo necessario a ristorarsi, trattandosi di incontri che raggiungevano, in via esemplificativa, la durata di 36 minuti (21.10.16), 38 minuti (10.11.16), 42 minuti (22.11.16) e in cui la gran parte del tempo era trascorso nel colloquio successivo alla consumazione della colazione”.

LA CONFERMA DELLA CASSAZIONE

Il lavoratore ha sollevato alcune eccezioni in merito alla autorizzazione della licenza del detective per una presunta carenza formale e quindi l’utilizzabilità degli accertamenti investigativi.

In aggiunta, nel ricorso “critica diffusamente la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto utilizzabili le risultanze dei controlli effettuati mediante agenzia investigativa in pretesa violazione della disciplina statutaria contenuta negli artt. 2, 3 e 4 della L. n. 300 del 1970”.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza numero 27610 del 24 ottobre 2024 quanto alla censura in merito all’autorizzazione ha ribadito che “l’autorizzazione prefettizia prevista per le attività di investigazioni, ricerche e raccolta di informazioni per conto di privati, non rappresenta una condizione necessaria per l’utilizzabilità degli esiti testimoniali di tali indagini (cfr. Cassazione 24580/2013 e 25335/2010)”.

Prive di pregio sono state ritenute anche le doglianze circa il controllo del lavoratore per mezzo di investigatori privati. La Suprema Corte, per l’ennesima volta, ha riaffermato la legittimità del ricorso ai detective “quando la finalità del loro impiego non è il controllo occulto della prestazione lavorativa, bensì il compimento di atti illeciti da parte del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale (cfr. Cassazione 9167/2023)”.

Più precisamente, ad essere tutelato è il patrimonio aziendale, che è riconosciuto come quello costituito non soltanto dai beni aziendali, ma anche dall’immagine esterna dell’azienda, così come accreditata presso il pubblico (cfr. Cassazione 23985/2024, 13266/2018, 2722/2012).

Aggiungono i giudici di legittimità che “costantemente è stata ritenuta lesiva del patrimonio aziendale la condotta di dipendenti potenzialmente integrante un illecito penale, sia ammettendo l’accertamento di fatti disciplinarmente rilevanti mediante filmati di telecamere occulte (cfr. Cassazione 10636/2017) oppure a presidio della cassaforte aziendale (cfr. Cassazione 22662/2016), sia in ipotesi di mancata registrazione della vendita da parte dell’addetto alla cassa ed appropriazione delle somme incassate (cfr. Cassazione 17004/2024 e 18821/2008)”.

È quindi pacifico come “la tutela del patrimonio aziendale possa riguardare la difesa datoriale dalla lesione all’immagine e al patrimonio reputazionale dell’azienda, non meno rilevanti dell’elemento materiale che compone la medesima (cfr. Cassazione 23985/2024)”.

L’impiego di investigatori privati “è ancor più comprensibili nei casi in cui la normale attività lavorativa deve essere eseguita al di fuori dei locali aziendali, ossia in luoghi in cui è più facile la lesione dell’interesse all’esatta esecuzione della prestazione lavorativa e dell’immagine dell’impresa, all’insaputa dell’imprenditore (cfr. Cassazione 20440/2015)”.

Nel caso di specie, i fatti perseguiti avevano rilievo penale in quanto idonei a raggirare il datore di lavoro ed a ledere non soltanto il patrimonio aziendale ma anche l’immagine dell’azienda all’esterno, motivi per cui le indagini delegate sono state considerate del tutto legittime e non coincidenti con il controllo occulto della prestazione lavorativa.

Quanto alla legittimità del licenziamento, “il massimo provvedimento sanzionatorio è stato ritenuto congruo anche in ragione del fatto che il dipendente aveva importanti compiti dirigenziali e di coordinamento, e che la percezione del cittadino di una deprecabile prassi – nel vederlo costantemente in luoghi pubblici e per tempi irragionevoli a degustare consumazioni e chiacchierare con i colleghi – arreca pregiudizio al decoro aziendale ed all’immagine che essa si crea nella cittadinanza, oltre a recidere il vincolo fiduciario”.

Per i suesposti motivi il ricorso è stato rigettato ed il ricorrente condannato alle spese.