"Il teatro della passione" è il titolo di una sceneggiatura di 120 pagine per un lungometraggio che ho scritto nel 2019 a ridosso della mostra avvenuta alla casa delle culture e della musica a cura di Marco Nocca, Gabriele Romani e Alessandra de Angelis, e solo dopo averne precisato l'arco narrativo, ho preso visione del bellissimo catalogo della mostra, trovandovi conferme di ciò che avevo scritto intuitivamente.
Il titolo fa riferimento al famoso teatro all'aperto nell'attuale piazza Caduti del lavoro, smantellato a fine settecento, dove per secoli si è rappresentata la passione di Cristo, a rimarcare che le radici di ognuno sono inestirpabili, e che il maggior cruccio della Romani fu di non poter vedere realizzata la galleria d'arte che aveva destinata a Velletri, sia con opere sue che della sua collezione, e l'idea di un film su di lei potrebbe essere un risarcimento per il dispiacere patito, facendola conoscere anche al di la della cerchia degli addetti ai lavori.
Dalla modella ricercata per freschezza e avvenenza, alla dotata allieva del mostro sacro Ferdinand Roybet, sono rimasto colpito per la storia della sua eroica affermazione e dei violenti contrasti con il contesto sociale che l'ha vista protagonista. La Romani è stata una pittrice che se da un lato rimase fedele al culto del dipingere classico e del virtuosismo tecnico, dall'altra con la sua verve espressiva, portò una ventata di ambizione e narcisismo che affascinò il milieu intellettuale della Ville Lumiere, allora allo zenit come centro mondiale dell'arte.
Oggi la Romani appare come un'artista intrisa di quel malato romanticismo cantato da Charles Baudelaire, in cui gli estetismi e gli estremismi, della, e del dandy, e la sua sensualità, cozzano con la morbosa esaltazione per lo spleen parisienne che si poteva rintracciare e rivelare ovunque, e questo produsse insieme alla sua notorietà, anche del fanatismo, con conseguente affettazione per narcisistiche esasperazioni che la condussero per la strada poi percorsa da altre grandi pittrici del novecento come Tamara De Lempicka e Frida Kahlo, fino allo squilibrio psichico sfociato in un' irreversibile crollo che la costrinse alla rinuncia della vita attiva, per quella 'vegetativa'.
L'ultima parte della mia sceneggiatura, non essendovi una documentazione sul suo ritiro dalla scena artistica, è totalmente inventata, e sono convinto che non si poteva chiedere di più ad una ex contadinella divenuta una delle regine della Bella Epoque, poi sublimatasi nel dolore, con cui la città di Velletri dovrebbe riconciliarsi ed essere per prima fiera del suo genio.
Franco Di Matteo