Diffamazione aggravata per offese su Facebook

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La diffamazione via social tramite strumenti informatici è un argomento poco discusso, anche se tale reato è oggetto di sempre più numerosi procedimenti penali. La diffamazione per offese su Facebook, in quanto social network più popolare e quindi più usato, ha un ruolo di primo piano nella determinazione dell’aumento di procedimenti e condanne penali. Si tratta di una diffamazione “aggravata” il cui fondamento giuridico è stato ricollegato al comma 3 dell’articolo 595 del Codice penale che prevede l’ipotesi in cui l’offesa alla reputazione “sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. Con la sentenza del 2 maggio 2023, n. 18057, la Cassazione ha stabilito che un eventuale contrasto politico non può giustificare le offese su Facebook. 

PREMESSA

L’articolo del Codice citato non prevede espressamente la diffamazione via social tramite l’utilizzo di strumenti informatici. Il legislatore, in questo caso, non ha introdotto un aggiornamento integrativo come avvenuto con altre fattispecie di reato che il Codice originario (1930) non poteva per ovvi motivi prevedere. Tuttavia, la Corte di Cassazione penale ha provveduto a colmare la lacuna legislativa includendo gli insulti e le offese via social nell’ampio concetto dei mezzi di stampa e di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. Si può considerare ormai più che consolidato l’orientamento giurisprudenziale della Cassazione, secondo il quale “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone” (Cass. Pen., sent. n. 40083/2018). 

LA VICENDA

Nel caso di specie, erano state pubblicate dall’imputato sulla pagina Facebook di un gruppo, frasi con parole come “ignorante … cretino … sciacqua lattughe”, alle quali la Corte di merito, aveva attribuito una valenza denigratoria, “anche in considerazione della circostanza che l’uomo non perdeva mai occasione di intervenire per commentare qualsiasi esternazione anche non inerente ad argomenti strettamente politici, apparendo gli interventi del tutto pretestuosi ed evidentemente finalizzati ad insultare pubblicamente il soggetto che non conosceva neanche personalmente, tanto è vero che la persona offesa lo aveva più volte diffidato dal persistere nelle condotte”. Nel ricorso in Cassazione, l’uomo condannato per il reato di cui all’art. 595, comma 3°, c.p.  ha sostenuto che su Facebook avevano da tempo scontri verbali per ragioni politiche e le frasi a lui attribuite non avevano alcuna valenza offensiva né contenuto violento, “costituendo espressioni dialettali usuali tra persone in confidenza”

DECISIONE DELLA CASSAZIONE

Anche ai giudici di legittimità, il contesto di contrasto politico, del tutto escluso dalla sentenza impugnata, è sembrato genericamente evocato, “apparendo le frasi e gli epiteti utilizzati non inquadrabili neanche in un contesto di contrapposizione politica, né di dileggio personale tra soggetti legati da vincoli di conoscenza, con conseguente piena integrazione della condotta di diffamazione”. La Cassazione con la sentenza del 2 maggio sopra citata, ha ritenuto il ricorso manifestamente infondato perché le frasi pubblicate avevano certamente una valenza denigratoria, come ritenuto dalla Corte di merito, la cui decisione è stata “del tutto coerente con la giurisprudenza di legittimità, secondo cui il limite della continenza nel diritto di critica è superato in caso di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato (cfr. Cass. n. 320/2021)”.

La decisione commentata fa riferimento al “limite della continenza nel diritto di critica” che merita un chiarimento. Il diritto di critica è riconosciuto a ciascun cittadino della Costituzione (art. 21) ma non si possono oltrepassare limiti ben precisi messi in evidenza dalla giurisprudenza penale. Sintetizzando in poche parole concetti articolati, ampiamente discussi in numerosi libri ed altre pubblicazioni di informazione giuridica, i fondamentali limiti del diritto di critica sono costituiti dal rispetto della verità, nel senso che la critica deve poggiare su basi veritiere; dell’interesse pubblico, nel senso che il giudizio critico o la disapprovazione deve toccare avvenimenti dei quali la comunità può sentirsi partecipe, e della cosiddetta “continenza espressiva”. In particolare, quanto alla continenza, secondo il consolidato indirizzo di legittimità il diritto di critica consente di esprimere opinioni che non necessariamente devono essere obiettive, ma devono rispondere ad una correttezza del linguaggio, senza mai sfociare in ingiurie, contumelie ed offese gratuite e senza mai trascendere in attacchi personali diretti a colpire sul piano individuale la figura del soggetto criticato. Il limite della continenza espressiva fa riferimento alle espressioni utilizzate, “ossia alla circostanza che la critica sia operata con una forma espositiva proporzionata e corretta in quanto non ingiustificatamente sovrabbondante al fine del concetto da esprimere” (Così, da ultimo, Cass. pen.,18 gennaio 2021, n. 8898)

INDIVIDUAZIONE DELL’AUTORE DEL REALE

Un tema ripetutamente affrontato dai giudici di legittimità è quello della riconducibilità all’imputato delle offese “virtuali” effettuate con dispositivi informatici o telematici. Più precisamente, la necessità, o meno, di individuare l’indirizzo IP ai fini della condanna. L’IP (Internet Protocol) è un codice numerico associato ad ogni dispositivo per navigare e comunicare in rete. Si tratta quindi di un identificatore unico, come un indirizzo postale, associato all’attività online dell’utente del dispositivo. L’indirizzo IP viene usato anche dalla polizia postale per risalire all’identità di chi compie azioni illecite sul web. In relazione alla possibilità di condannare l’autore dell’illecito a prescindere dall’individuazione dell’IP, la Cassazione ha stabilito che non è necessario quando esistano altri elementi a disposizione per attribuire il comportamento diffamatorio dell’autore del post. Quindi, è sufficiente la individuabilità dell’autore anche in base al nickname, ai rapporti tra imputato e persona offesa, ad eventuali vicende passate (Cass. n. 4239/2022). 

Già in precedenza, per citare altra sentenza recente (Cass. n. 24212/2021), gli Ermellini avevano ritenuto incontestabile la condanna su base indiziaria, “a fronte della convergenza, pluralità e precisione di dati quali il movente, l’argomento della discussione in cui avviene la pubblicazione, il rapporto effettuate con dispositivi tra le parti, la provenienza del post dalla bacheca virtuale dell’imputato con utilizzo del suo nickname”. In conclusione, secondo l’orientamento della Corte di Cassazione l’indirizzo IP non è indispensabile ai fini di una condanna per diffamazione via web, quando esistano “altri criteri logici e massime d’esperienza condivise che consentano di ricondurre un post diffamatorio al suo autore”