Don Milani: un ricordo nel centenario dalla nascita
Lorenzo Milani viene al mondo di domenica, il 27 maggio 1923, nell’elegante palazzina in stile neoclassico della sua famiglia in viale principe Eugenio a Firenze. Allora solo i figli dei poveracci nascevano in ospedale. La famiglia Milani era una delle più ricche di Firenze. Possedeva, oltre alla palazzina di residenza in città, anche una tenuta con villa e diversi poderi a Gigliola in Chianti. D’estate andavano al mare in una abitazione signorile a Castiglioncello. Per i viaggi in Italia e all’estero, Albano Milani, padre di Lorenzo, possedeva due macchine. Allora a Firenze le auto private in circolazione non erano più di venti. La famiglia aveva diverse persone di servizio: cuoca, cameriera, servitore, autista, istitutrice tedesca ed altre figure occasionali come la balia e la maestra. Lorenzo, come il fratello maggiore Adriano e la sorella minore Elena, impararono a leggere e scrivere a casa con un’insegnante privata. Una ricchezza, quella dei Milani, non solo materiale. Già gli antenati facevano parte dell’alta borghesia intellettuale. Da generazioni la famiglia generava cattedratici: soprattutto studiosi della lingua, della letteratura e dell’arte.
Ho fatto questa introduzione, sulle cosiddette “origini borghesi” di don Milani, perché hanno influito in modo determinante nel suo essere sacerdote integerrimo ed ineccepibile, ma soprattutto maestro di ragazzi ai quali mancava la “parola”, nel senso che mancava l’uso della lingua e quindi la capacità di reggere il confronto con le opinioni e la dialettica altrui e per questo destinati ad essere sottomessi e soggiogati. Una sua preoccupazione costante era quella di “ridare la parola ai poveri”, di conseguenza, riteneva fondamentale l’insegnamento delle lingue. Di quella italiana prima di tutto. Voleva dare la parola ai poveri, per spezzare il circolo vizioso per cui la padronanza della lingua delle classi superiori (perché colte e istruite) approfondiva il divario tra le classi sociali. Per don Milani compito della scuola non doveva essere quello di sfornare laureati, ma di rendere i cittadini consapevoli del ruolo che hanno per una società migliore. Don Milani usava spesso la parola “sovrani”. Lo testimoniano anche le parole della Lettera ai Giudici dove dice che bisogna “avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani” affinché si possano sentire “ognuno l’unico responsabile di tutto”.
La vocazione religiosa non è arrivata presto, è entrato in seminario dopo aver frequentato il liceo Berchet a Milano. Venne ordinato sacerdote il 13 luglio 1947 e subito dopo cominciò la sua prima esperienza pastorale a San Donato di Calenzano dove istituì una scuola popolare serale come scuola privata, si potrebbe dire scuola “personale”. Solo in un secondo tempo vi collaborò per cinque mesi l’anno anche un maestro volontario, che raggiungeva Calenzano in bicicletta da Firenze, dove la mattina faceva le supplenze. Don Milani assegnava all’elevazione culturale due precise funzioni: la prima di carattere sociale per consentire al povero di elevarsi nel sapere al rango culturale del ricco; la seconda funzione era di carattere pastorale in quanto l’istruzione permetteva all’uomo di fede la comprensione dell’insegnamento religioso. Le due funzioni per don Milani dovevano rimanere nettamente distinte. La scuola popolare doveva servire a trasformare delle “bestie culturalmente parlando”, facendole diventare uomini. L’evangelizzazione la svolgeva in canonica e nessuno dei ragazzi che frequentava la scuola popolare era obbligato a partecipare. Suscitò scalpore nei cattolici della chiesa di allora, apertamente schierata con la Democrazia Cristiana, il fatto che aveva ammesso alla scuola anche i figli dei comunisti. Solo per averli considerati figli di Dio, come i figli dei democristiani, si sparse la voce, nel contesto di riferimento politico e clericale, che era un prete comunista. Per garantire l’assoluta aconfessionalità della scuola popolare arrivò anche a togliere il crocifisso dalle pareti, scatenando un putiferio con le altre associazioni parrocchiali che usavano lo stesso locale per le loro riunioni.
Per tutta la vita mantenne una promessa che fece ai suoi ragazzi: “Vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio soltanto per darvi l’istruzione e che vi dirò sempre la verità d’ogni cosa, sia che faccia comodo alla mia ditta, sia che le faccia disonore”. L’obiettivo di don Milani, ha detto un suo allievo, era quello d’insegnare a pensare con la propria testa e se c’era da criticare trattava allo stesso modo l’Unità, giornale dei comunisti, come i giornali dei preti.
L’insegnamento di don Milani, testimonia un altro allievo della scuola, andava contro il conformismo e le mode che rendono l’uomo pecora e fanno sentire emarginato chi non si allinea. Ai suoi ragazzi diceva, come ha scritto su Esperienze Pastorali: “Chi sa volare non deve buttare via le ali per solidarietà con i pedoni, deve insegnare a tutti il volo”.
Raccolse tutta la storia e le vicende della Scuola Popolare di San Donato e dei primi anni a Barbiana nel saggio sociologico intitolato Esperienze Pastorali, che ha sollevato aspre polemiche per non aver risparmiato “doverose” critiche anche ai giornali dei preti e l’istituzione religiosa. Pubblicato nel 1958, dopo otto mesi dalla pubblicazione il Santo Uffizio ordinò che il testo venisse ritirato dal commercio. In un’epoca in cui i cattolici ritenevano che la Chiesa andasse servita ciecamente, don Milani non considerava affatto “diabolica” la critica a quella che considerava la sua “ditta”, quanto a modus operandi della gerarchia cattolica. Anzi sosteneva che non è buon cristiano, come del resto non è buon cittadino, chi si limita ad obbedire bovinamente a leggi ingiuste e soprusi delle autorità. Da diversi suoi scritti, ma soprattutto da una appassionata e durissima lettera, che scrisse all’arcivescovo Florit, il 6 marzo 1964, dieci anni dopo il suo arrivo a Barbiana, si comprende perfettamente che le critiche ai vescovi erano dettate dal suo amore per la Chiesa. Per la Madre Chiesa ebbe un amore grande e le fu sempre fedelissimo servitore, nonostante le pedate che riceveva. “Errori nelle Chiesa ce ne sono” diceva don Milani. “Ma la Chiesa è la Madre e ad una mamma non si chiede di essere perfetta per volerle bene”.
Era molto amato dal suo popolo di Calenzano, ma dal 6 dicembre 1954 venne confinato a Barbiana sul Mugello, in una parrocchia di poche anime, destinata alla chiusura, non servita da strada carrabile, raggiungibile facendo alcuni chilometri a piedi. Era un lunedì, numerosi Calenzanesi accompagnarono don Milani testimoniando sulla desolazione del trasferimento. Ferruccio Francioni descrive dettagliatamente la penosa salita a piedi, in pieno inverno, “sotto una gelida pioggia battente, con folate di vento che strappavano gli ombrelli dalle mani e incollavano i vestiti sul corpo”. Sconfortante l’arrivo in una casa buia perché mancava la corrente elettrica, senza acqua corrente, con un gabinetto pietoso, con le galline che razzolavano in canonica. Giorgio Pelagatti ha raccontato che don Milani appena arrivato lassù “entrò in chiesa, pregò e pianse”. Sorprese tutti il fatto che il giorno dopo il suo arrivo, don Milani andò dal parroco di Vicchio per farsi accompagnare in municipio, deciso ad acquistare un posto nel minuscolo cimitero della sua nuova parrocchia a Barbiana. Spiegò, all’allibito parroco, che se ne uscì con una battuta, che la tomba lo avrebbe fatto sentire totalmente legato alla sua nuova gente nella vita e nella morte.
Credevano di isolarlo mandandolo sul Mugello, dice Giulio Pelagatti, e lui ha fatto quello che faceva a Calenzano. Ha aperto una scuola serale anche nella canonica di Barbiana. In diverse lettere traspare un’ammirazione sconfinata per quei ragazzi che, di giorno accudivano gli animali e pulivano le stalle e poi la sera facevano chilometri a piedi per andare a scuola. Doveva essere un vero esilio in un posto sperduto che è invece diventato un modo di fare cultura considerato straordinario. La sconosciuta Barbiana era diventata in poco tempo, a livello nazionale e internazionale, una capitale simbolica di un diverso modo di fare cultura, di una interpretazione più evangelica della religione e della contestazione civile. Sei anni dopo il suo arrivo a Barbiana, nel 1960, cominciò ad avvertire i sintomi della grave malattia che lo ha portato alla morte per un tumore ai polmoni. Nel marzo del 1967, dovendo sottoporsi a frequenti irradiazioni al cobalto, si trasferì a casa della madre a Firenze dove giorno e notte lo assistevano i suoi ragazzi. Gli ultimi giorni furono di grandissima sofferenza. Quando non poteva più parlare né inghiottite scriveva dei bigliettini. In uno di questi accennando ai suoi ragazzi scrive: “io non ho fatto mai a nessuno quello che stanno facendo a me e passo la nottata ad ammirarli”. Morì il 26 giugno 1967. Aveva dato disposizioni su come dovevano vestirlo: con i paramenti sacri e gli scarponi di montagna. Un furgone lo riportò a Barbiana, anche questa volta era un lunedì ma c’era un bel sole. C’era tanta gente a Firenze a vederlo andar via e tanta gente a Barbiana ad aspettarlo. Furono i ragazzi a portare a spalla la bara per il sentiero che lui stesso aveva fatto costruire perché la gente si ricordasse dei morti. Nel piccolo cimitero di Barbiana le ortiche non crescono più, in tanti tornando dalle vacanze in autostrada escono alla stazione Barberino di Mugello, anch’io l’ho fatto, per salire a Barbiana. C’è sempre qualcuno davanti al candido marmo della sua tomba sul quale si leggono le parole “Sac. Lorenzo Milani n. 27.5.1923 m. 26.6.1967. Priore di Barbiana dal 1954”. Commovente il testamento per i suoi ragazzi: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto a suo conto”.