La prima è di carattere etico.
Mussolini, dopo la presa del potere, aveva cominciato a mantenere le sue promesse elettorali.
Mentre il padronato smaniante dietro il rampante capitalismo fordiano premeva per “elasticizzare” la durata della giornata lavorativa, lui la riduceva a otto ore, mentre implorava d’abbassare i salari lui li aumentava del 10%, mentre supplicava di tener alta la disoccupazione per far precipitare i salari Mussolini investiva somme enormi di danaro pubblico ( quindi anche del loro!)in lavori pubblici, come le bonifiche, che avrebbero riempito di boria dei morti di fame trasformati in piccoli proprietari; e come non bastasse ne buttava altro per mandare nelle colonie estive i figli degli operai, per mantenere le ragazze madri ed i frutti delle loro colpe.
Pezzi grossissimi dell’establishment economico italiano considerava tale politica un buonismo non solo inutile, ma pericoloso, addirittura vergognoso, una scopiazzatura sfacciata, a loro danno, di quanto stava facendo Lenin in URSS.
Ma Mussolini era andato avanti,anche pensando ( ma questi sono fatti suoi) al consenso di massa che poteva derivarne, e comunque elargendo tutto ciò al “prezzo politico-morale” dell’adesione al regime.
La prova del nove per dimostrare che a tale politica fosse sottesa fondamentalmente da una tensione etica di giustizia sociale, oppure da altro, gli venne offerta dalla storia.
Quando, nel ’35, Francia ed Inghilterra si pestavano i piedi nelle loro colonie, Mussolini venne sedotto da un’idea d’irresistibile fascino. Era il quarantennale della disfatta di Adua, bisognava celebrarlo fascisticamente.L’Italia di Mussolini, costituendosi in una squadraccia innumerevole ed armatissima da spedizione punitiva, sarebbe andata nel corno d’Africa a “suonarle” ai discendenti di Menelik, ed a piazzarsi autorevolmente tra le potenze colonizzatrici, addirittura con un impero. E così avvenne. D’ordine del duce al colono che stava dissodando le zolle pontine venne tolta la zappa e messo in mano il fucile; se poi crepava lui, o l’abissino, non era un problema. Nel primo caso si poteva dire che gli italiani bramavano di morire per il Duce, nel secondo che il Duce aveva lavato l’onore italiano col sangue africano. In definitiva che il Duce era diventato un vero grande, perché aveva vinta una guerra.
E sono arrivato alla prima considerazione. Mussolini era orgoglioso delle sue realizzazioni economico-sociali, ma non soddisfatto. Per lui, evidentemente, quelle non bastavano, anche se da mezzo mondo gli piovevano addosso lodi proprio per esse. Per lui quella doveva esser “robettòla”, per lui la “grande politica”, la “grande storia”, come insegnava Hegel e come Hitler aveva imparato a fondo, non si faceva dando pane e lavoro, si faceva con la guerra. E, siccome la guerra è guerra, si fa versando il sangue dei propri popoli e di quelli aggrediti,distruggendo, schiavizzando, arraffando, pur d’allargare un confine. In due parole, infine: solo la guerra da la vera gloria.
Chissà come si sarà morso i gomiti, Mussolini, prima quando vide che la “sua” guerra gli era costata la defenestrazione da capo del governo, poi, quando si era ridotto, nei giorni di Salò, a coonestare le fucilazioni di ragazzi italiani ordinate da Graziani a nome del Reich, a godere l‘”onore” di precedere nella disfatta e nella morte il “fedelissimo alleato” Adolfo.
La storia gli aveva fatto pagare il conto della “vera gloria” che lui s’illudeva gli sarebbe stata regalata su un piatto d’argento da noi e da quelli che lui s’era inventato da un giorno all’altro essere i nostri nemici. L’aveva anche detto, nel ’40 :”Mi serve qualche migliaio di morti…” senza specificare di quale “squadra”.
La seconda considerazione è totalmente “de-moralizzata”, è pura matematica.
Quando Hitler iniziò la seconda guerra mondiale non aveva calcolato la stragrande parte di fattori che avrebbe dovuto calcolare per NON avviare la Germania al suicidio tramite linciaggio.
Per prima cosa tagliamo fuori l’alleanza col Giappone, unico elemento di maggior forza rispetto alla Germania del Kaiser all’inizio della prima guerra mondiale. Perché il Giappone era neutralizzabile, a parte ogni altra potenza, anche dalla sola Cina, e da tutte le potenze dell’Asia meridionale.
Quindi analizziamo l’accennata situazione di partenza della Germania di Hitler rispetto a quella del Kaiser.
Essa era più debole di essa di fronte al resto del mondo, perché aveva perso le colonie africane, perché invece del compatto alleato austroungarico del ’14 aveva dei “pezzi” di esso, costituiti da etnie ( cechi, slovacchi, ungheresi) da sempre o estranee od ostili alla Germania, e dell’alleato ottomano, ridotto a frammenti di esso ( bulgari, romeni) ancora più inaffidabili, che alla minima difficoltà si sarebbero o sfilate o meglio rivoltate rabbiosamente.In quanto all’Italia, azzerare la possibilità d’un bis del precedente del tradimento della triplice alleanza, nonché il tasso d’odio storico contro i tedeschi soprattutto dei padani era stata una mancanza imperdonabile.
Ma questa è solo la premessa ai conti matematici.
Hitler non aveva calcolato che la sola URSS era largamente sufficiente, in uomini e mezzi, ad annientare la Germania.
Ma anche i soli USA, e forse con maggior facilità, con una manina d’aiuto dal Canada.
Ma anche il solo Commonwealth.
Ma anche la sola Francia, con le sue sterminate colonie africane ed asiatiche.
E se si fossero tutte messe insieme contro la Germania? Fu proprio quello che accadde.
E Mussolini? Il grande statista, quasi fratello maggiore di Adolfetto, invece di cercare di farlo ragionare sia prima della guerra che durante il massacro sempre più accelerato della Wehrmacht quando anche un poppante aveva capito che resistere agli alleati era obbligare al suicidio ogni singolo soldato, che faceva? Giocava con la nostra pelle ed il nostro sangue, firmando una grottesca dichiarazione di guerra agli USA,facendoci pugnalare alle spalle la Francia, mandandoci a spezzare le reni alla Grecia, a crepare di caldo nel Sahara contro gli inglesi, a morire congelati sulle rive del Don, a resistere a fianco delle SS in nome del Reich.Ed il crollo dell’ultimo pezzo dell’Impero di cartapesta, a Gondar, nel novembre ’41, dopo sei anni di vita, non fu accompagnato da un massacro solo perché il generale Nasi capitolò di fronte alle truppe congolesi e keniane degli alleati.
Bisogna ricordare queste cose a chi oggi guarda a questi stragisti, prima di tutto dei propri popoli, come “uomini forti”, come esempi da seguire.