Ultimo aggiornamento:  21 Luglio 2023

Incostituzionale differire la buonuscita ai dipendenti pubblici

Secondo la Corte Costituzionale, il differimento della corresponsione dei trattamenti di fine servizio (TFS) spettanti ai dipendenti pubblici andati in pensione, contrasta con il principio costituzionale della giusta retribuzione che “si sostanzia non solo nella congruità dell'ammontare corrisposto, ma anche nella tempestività della erogazione”. Da qui, l’invito al legislatore a eliminare tale rinvio, anche per ovviare alla ingiusta disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati nel pagamento della cosiddetta liquidazione.

PREMESSA

Il principio della giusta retribuzione, al quale è stata ricollegata l’incompatibilità del differimento, è chiaramente espresso nell’articolo 36 della Costituzione, il quale sancisce che: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del suo lavoro, e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa”.

In questo contesto, mi sia consentito aprire una parentesi per dire che può sembrare inverosimile che la Costituzione contenga un principio così chiaro e inequivocabile e poi esista tanta incertezza e riluttanza nel riconoscere un salario minimo legale.

La nostra costituzione è stata definita “la più bella del mondo”, ma il legame che gli italiani hanno con essa appare piuttosto disinteressato e i governanti si possono permettere di non rispettarla. Cittadini responsabili dovrebbero non solo difenderla, ma anche esigerne l’applicazione, soprattutto nei suoi principi fondamentali. Tra questi quello del diritto al lavoro e ad una dignitosa retribuzione; ma anche quello della giustizia sociale, che ha per criterio di misura la dignità e il benessere dei cittadini.

Si può dire che l’Italia non è più una repubblica fondata sul lavoro, ma su una precarietà diffusa con tanti lavoratori al limite dello sfruttamento e una enorme disuguaglianza, anche tra chi fa lavori similari. Sono lontani i tempi in cui i lavoratori, lottando uniti, ottennero l’approvazione dello “statuto dei lavoratori”, che sancì formalmente i diritti della classe operaia, con vere e proprie garanzie a proposito di sicurezza, stabilità e riconoscimento di retribuzioni adeguate in base al lavoro svolto.

Siamo arrivati ad una organizzazione legislativa del lavoro che favorisce qualsiasi strategia lesiva dei diritti dei lavoratori. Sul concetto di “giustizia sociale” ha preso il sopravvento il concetto di (in)giustizia del mercato, espresso dal valore che questo attribuisce al compenso delle prestazioni individuali.

In un Paese con oltre cento miliardi di evasione, il modello che si è prepotentemente affermato negli ultimi tempi è quello di un consumismo sfrenato (per chi può ovviamente!) e di una corsa alla ricchezza fine a sé stessa. Quella sì, protetta e salvaguardata, anche quando diventa smisurata, alla faccia di chi vive in condizioni di indigenza e profonda miseria! La realtà è che da decenni i poveri, senza arte e senza cultura, divisi e confusi, anziché aggregarsi e lottare per una maggiore giustizia sociale, sostengono chi poi legifera contro i loro interessi. “La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo”, scriveva don Milani. “Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale”. Questo è il vero paradosso: i poveri, tra questi molti lavoratori, privi di qualsiasi funzione sociale, votano per chi li rende ancora più poveri. Voleva essere un breve inciso, mi sono lasciato trascinare in una lunga digressione!

NORME SUL DIFFERIMENTO

Le questioni di legittimità costituzionale erano state sollevate dal TAR Lazio, in riferimento all'articolo 36 Costituzione, in relazione alle norme che prevedono rispettivamente il differimento e la rateizzazione delle prestazioni (art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 79 del 1997, come convertito, e dell'art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito).

Come è noto, a differenza del Trattamento di Fine Rapporto (TFR), che i lavoratori privati percepiscono in tutto il suo ammontare al momento del collocamento in pensione, il Trattamento di fine Servizio (TFS), destinato ai lavoratori pubblici, viene invece erogato in tempi molto più lunghi che differiscono tra loro in ragione della causa di cessazione del rapporto di lavoro ed in relazione alla somma maturata da erogare.

Nel dettaglio la normativa vigente prevede il pagamento del TFS entro 105 giorni in caso di cessazione dal servizio per inabilità o per decesso del lavoratore.

Nel caso la cessazione del rapporto di lavoro, avvenga per raggiungimento dei limiti di età o di servizio, il pagamento viene effettuato non prima di 12 mesi dalla data di cessazione dal servizio.

In tutti gli altri casi di cessazione del rapporto di lavoro, come per esempio le dimissioni e il licenziamento, il pagamento della prestazione spettante sarà effettuato non prima di 24 mesi.

Sulla base di queste tempistiche, l’erogazione della prestazione può quindi avvenire:

  • in un’unica soluzione, se l’ammontare complessivo lordo è pari o inferiore a 50.000 euro;
  • in due rate annuali, se l’ammontare complessivo lordo è superiore a 50.000 euro e inferiore a 100.000 euro;
  • in tre rate annuali, se l’ammontare complessivo lordo è pari o superiore a 100.000 euro.

In caso di pagamento rateale, la seconda e la terza tranche saranno pagate rispettivamente dopo 12 e 24 mesi dalla data di decorrenza del diritto al pagamento della prima.

LA SENTENZA

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 130 depositata in Cancelleria il 23 giugno 2023, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale delle norme che prevedono rispettivamente il differimento e la rateizzazione delle prestazioni; precisando che “Spetta al legislatore, avuto riguardo al rilevante impatto finanziario che il superamento del differimento comporta, individuare i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento riformatore che tenga conto anche degli impegni assunti nell'ambito della precedente programmazione economico-finanziaria”.

Con l’avvertenza che “La discrezionalità di cui gode il legislatore nel determinare i mezzi e le modalità di attuazione di una riforma siffatta deve, tuttavia, ritenersi, temporalmente limitata”.

Quindi, non è stata dichiarata l’incostituzionalità delle norme, ma l’incompatibilità del differimento del trattamento di fine servizio con “il principio costituzionale della giusta retribuzione, di cui tali prestazioni costituiscono una componente; principio che si sostanzia non solo nella congruità dell'ammontare corrisposto, ma anche nella tempestività della erogazione”. Da qui il pressante e urgente invito al legislatore a rimuoverlo, magari gradualmente ma in tempi brevi.

Si tratta di un emolumento volto a sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una particolare e più vulnerabile stagione della esistenza umana, quindi, ha chiarito la Corte, “la discrezionalità del legislatore al riguardo non è temporalmente illimitata. E non sarebbe tollerabile l'eccessivo protrarsi dell'inerzia legislativa, tenuto anche conto che la Corte aveva già rivolto al legislatore, con la sentenza n. 159 del 2019, un monito con il quale si segnalava la problematicità della normativa in esame”.

La Corte riconosce di non potere “allo stato, porre rimedio, posto che il quomodo delle soluzioni attinge alla discrezionalità del legislatore”, aggiungendo poi che il legislatore dovrebbe formulare “una soluzione che, in ossequio ai richiamati principi di adeguatezza della retribuzione, di ragionevolezza e proporzionalità, si sviluppi muovendo dai trattamenti meno elevati per estendersi via via agli altri”. Infatti, conclude la Corte, la disciplina attualmente in vigore, “calibrata su una progressione graduale delle dilazioni, via via più ampie in proporzione all’incremento dell’ammontare della prestazione, finisce per aggravare il vulnus sopra evidenziato”.

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