Recentemente premiata al concorso letterario “Le parole dell’Anima”, è in piena attività la poetessa Alessandra Grecco Russo. Dopo “Sapore Rosso”, una raccolta poetica che ha affrontato tematiche impegnative e scottanti come la fede, la consapevolezza, il cuore, ha già in cantiere una nuova pubblicazione che dovrebbe uscire a breve. Definisce il suo rapporto con la scrittura tormentato e al contempo salvifico, e in quest’intervista oltre a parlare del Premio appena vinto approfondiamo proprio gli aspetti che stanno “dietro” la sua produzione.
Alessandra Grecco Russo, l’ultima soddisfazione letteraria è l’assegnazione della menzione d’onore per la poesia “Fratello Raccontami” al premio letterario “Le parole dell’anima”. Un riconoscimento prestigioso da parte della Giuria: ci racconti le emozioni di questo successo?
I concorsi in Italia sono moltissimi; vi sono liste sconfinate, e questo è un bene, un caldo approdo per coloro che cominciano ad affacciarsi sulla marea di case editrici o di concorsi in cerca d’uno sbocco. Hanno tutta la mia ammirazione. Io ho avuto la fortuna d’incontrare un editore paziente, che m’ha letta e spronata o non avrei mai pubblicato. Occorre armarsi di grande coraggio per inviare i propri scritti come fossero imbottigliati e gettati nelle acque. Non sai se qualcuno accoglierà il tuo messaggio, ma quando accade, è un sogno a occhi aperti, una iniezione di gioia in vena. Il tuo scritto è un coagulo di sudore, di sangue e lacrime, come il corpo; mi fa pensare a Precious Liquids, l’installazione a botte contenente liquidi umani in ampolle di Louise Bourgeois. Il concorso letterario “Le Parole dell’Anima” spiccava fra tanti per via del suo nome, e perché è un pegno d’amore. Nasce in memoria di Anna Oesterle, moglie dello scrittore Francesco Gemito, Presidente del Premio. Il signor Gemito mi ha proposto di prendere parte alla giuria della nuova edizione. Ho accettato. Non amo le selezioni, scremare è un’azione drammaticamente drastica, dura, dolorosa. Nell’istante della scelta si recidono le ali di qualcuno, ma io dico: non ci si arrenda mai, si tenti altrove, si tenti ovunque, perché spesso si è costretti a scartare il talento per il talento. Come ha scritto la Dickinson: “la Speranza è un essere piumato che si posa sull’anima, canta melodie senza parole e non finisce mai”. Tuttavia sono grata di poter leggere opere altrui e di poter contribuire ad alimentare la memoria di Anna. Il nostro presente è benedetto e dannato dalla tecnologia, perché la tecnologia accosta e separa insieme, sicché, per questa e per altre motivazioni, si è sempre più infangati nelle sabbie mobili del vecchio e onnipresente germe dell’infedeltà. Dovremmo tendere la mano verso gli amori che splendono di luce propria, come faceva Gatsby rivolto al faro acceso di verde, nella speranza di raggiungerli e che non sfumino mai. È l’unico antidoto. Francesco e Anna sono un faro.
Come è nata la poesia premiata e come ti sei trovata a partecipare al premio?
Mi premeva scrivere sulla comunione imperitura che lega ogni persona a un’altra; la vita è una scalata in cordata. Un’unica corda per tutti. In verità l’essenza di uno sconosciuto già la conosciamo perché l’altro porta in sé molto di noi, che sia il vicino di casa, il passante, il lettore. Dunque ogni corolla del corpo e della psiche è unica, ma custodisce il capolino del cuore, uno e indivisibile, poiché straordinariamente umano per chiunque. In sostanza, la diversità di ognuno racchiude uguaglianza. Differenti religioni, traumi, personalità, ma non proviamo forse tutti il terrore della morte? Non temiamo tutti la solitudine? Non nutriamo amore verso i figli, verso i genitori? Non prude la schiena a tutti, non lottiamo contro un corpo in decadenza? Un’unica spietata nemica ci viene incontro. La vita non è forse scandita per ognuno da un’alba, un mezzogiorno e un crepuscolo? Non discendiamo forse tutti dalla scimmia e ancor prima dalla stella? Il cuore, foce e sorgente del sangue, e il sangue che lo bagna, non son forse per tutti di un’unica tinta nelle ampolle del corpo? Nonostante la genetica dia sempre nuova sembianza al vetro della pelle. “Il suono del sangue parla la stessa lingua”, opera di Jaume Plensa, affronta questo concetto.
Molto spesso la passione per i versi e per la bellezza della lirica nasce in tenera età. Per te è stato così, oppure sei arrivata ad avere un’ispirazione poetica solo durante il percorso di studi e di formazione?
A undici anni confidavo le mie giornate e i miei pensieri annotandoli in un diario; era la mia amica immaginaria. La chiamavo Lucy. Poco dopo sono arrivate delle storie che tenevo sepolte dentro un baule. Erano delle bozze. Su alcune tornavo, le facevo crescere, altre restavano allo stato embrionale di canovaccio. Quanti fogli ha ingurgitato quel baule! Aveva una bandiera americana dipinta sopra. Ammiravo l’America, all’epoca. Maturando, impari a distinguere di ogni Paese, di ogni cosa il suo chiaroscuro: un amalgama di pregi e difetti. L’istante è una giostra di sfumature, di tinte distanti che s’incontrano, come la vita e la morte. I versi sono arrivati in seguito, in tarda adolescenza. Una delle prime poesie l’ho dedicata a Bob Kennedy. Ora a ripensarci sorrido. La scrissi nello spogliatoio di una palestra. L’ho perduta, ma non immaginavo potesse piacere la mia scrittura. Scrivevo per me, per il baule a stelle e strisce. Ero troppo pudica e pavida per mostrare i fogli a qualcuno.
Come definiresti il tuo personale rapporto con la scrittura?
Conflittuale. Tormentoso. Viscerale. Salvifico. Quando non scrivo, mi ammalo. È una sorta di catarsi purificatrice dell’anima, del sangue, come l’atto vitale del respirare. La scrittura però è invadente, esigente, col tempo domanda sempre di più; seguirla significa fare delle rinunce. Credo sia legato alla mia negligenza nei suoi confronti. L’ho trascurata a lungo: una bambina venuta a bussare alla mia porta trovandola chiusa. L’ho lasciata fuori. L’ho coperta di stracci. Ora le do attenzioni, la sto accogliendo. Scrivere significa gioia estatica e cruccio, respiro e apnea. Di nuovo si ritorna all’intreccio di opposti, ai due volti inscindibili di una medaglia. Significa stendere parole per poi cancellarle. Neruda diceva: “per imparare a scrivere bisogna imparare a cancellare”. Questa inquietudine, questo peso fetale non m’abbandona sino a quando lo scritto non raggiunge la sua forma compiuta. È una gestazione. Solo così ci si sente sollevati, rincuorati. È una grandissima liberazione; poi si ricomincia da capo quando ci coglie l’idea successiva. Scrivere appaga e non appaga. Non si placa. È un parto che dura tutta la vita.
La poesia, oggi, che ruolo ha nella società dell’hic et nunc? Può essere affermata una sua funzione concreta, considerato il consumismo e il praticismo che imperano?
La Poesia respira all’ombra della Narrativa che l’ha parzialmente eclissata. La Narrativa è la prediletta, la Diva delle grandi vendite. La Poesia è una perla di nicchia, sebbene non si possa definire una comparsa. Mi auguro che in futuro tale disparità scompaia, ed è meraviglioso quando i due universi si fondono nel poema in prosa, come avvenne, ad esempio, nel Seicento con Basho, nell’Ottocento con Baudelaire e Rimbaud, nel Novecento con Ginsberg e Kerouac.
Il tuo debutto poetico è stato “Sapore rosso”. Una raccolta in cui ti avvicini ad argomenti propri dell’inquietudine umana, come la fede, la consapevolezza, il cuore, il corpo. Un esordio impegnativo…
Quando ho scritto il libro mio nonno era da poco scomparso, e la mia fede s’era incrinata già da parecchio. “Sapore Rosso” è un sapore melanconico, nostalgico, un sapore triste; quel sapore amaro della consapevolezza. Si palesa con la crescita, seppur non sia un’epifania; si consolida dentro di noi gradualmente. Da adulti siamo trafitti da questioni spinose come il tempo che fugge, la senilità, la povertà globale, il surriscaldamento e così via, temi presenti nel libro. Da piccoli una buona parte di questa croce è sorretta per noi da altri. Siamo protetti dai genitori, dalla scuola (seppur rechi traumi, così come la famiglia), da una quantità ben inferiore di sinapsi nel cervello. Infanzia è il privilegio del possedere una maggior cecità; si è ovattati in una bolla (pur con tutte le tribolazioni), condizione simile all’essere avvolti dal grembo materno, perduta patria della gioia. Kerouac scrive in Sulla Strada: “il ricordo di una felicità perduta che probabilmente si sperimenta nel grembo materno”. Io vedo un’assonanza tra la bolla dell’infanzia e il grembo materno. Questo libro è un omaggio a mio nonno, agli scrittori Beat.
Quali sono i poeti italiani che prediligi, contemporanei o meno, e perché?
Ho un debole per Giuseppe Ungaretti e Alda Merini. Artisti accomunati da versi potenti, bellissimi. Intramontabili come il loro sguardo dolcissimo. Accomunati dalla tragedia: di lui al fronte e tra le mura domestiche per la morte del figlio Antonietto. Di lei in manicomio e tra le mura domestiche col marito manesco.
Hai in cantiere una nuova raccolta o altre pubblicazioni?
“Calle d’Acquamarina” è la mia nuova raccolta. La pubblicherò a breve, sebbene l’abbia ultimata la scorsa primavera. Si discosta dalla prima come stile e tematiche. Qui predominante è l’amore nelle sue molteplici sfaccettature: sentimentale, filiale; una dichiarazione alla natura o verso il prossimo. “Antico mattino non può esser franto”. L’amore si tramanda di “padre in figlio”; sorgeranno nuovi sposalizi, famiglie, amicizie: è un flusso sacro che non può essere contrastato; scorre verso il futuro. I legami sono calle d’acquamarina. Calla intesa nel suo significato arcaico di sentiero. L’acquamarina è la pietra della purezza, gli antichi credevano contenesse il divino. Non è l’amore una strada antichissima, pura e infinita come gl’infiniti cieli? Solo questo cammino fatto di acqua e cielo condurrà la nostra specie alla salvezza. Il cammino dell’odio e del fuoco, al contrario, ci farà marcire nell’abisso dell’estinzione.
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