Immerso nel flusso mai visto d’informazioni su una guerra, mi sento ora nella funzione d’un cercatore che, dal materiale trascinato scarta tutto, meno le tracce, i granuli, la pepite d’oro. In altre parole sento il bisogno, per quando l’alluvione d’immagini, travolte e contese dalle correnti concorrenti o confliggenti delle “narrazioni” sarà cessata, allontanare, rimuovere, magari con rabbia, ciò che ritengo meglio dimenticare, e salvare, isolare, proteggere e fissare per più tempo possibile nella memoria ciò che a me, a pochi, o a tanti sia sembrato o sembri degno di ciò. Finalmente: raccogliere come fiori meravigliosi, nati sul ciglio d’abissi strapiombanti su crateri in eruzione o su ghiacciai senza vita, manifestazioni di forza morale e d’umanità sbocciate, quasi in sfida suprema, a fior della disumanizzazione bellica.
Il 25/2, primo giorno dell’aggressione di Putin, a Nipro, l’ospedale centrale della città era letteralmente avvolto da una coda ordinata di donne. Dalle loro posture qualcosa di diverso e superiore rispetto alla stanchezza rassegnata di quella condizione tracimava a tratti dal profondo, una dedizione intima, un’oblazione irreversibile, una determinazione pensosa e grave. Aspettavano il proprio turno nella donazione del proprio sangue per i quelli che fra poche ore ne avrebbero avuto bisogno, i loro fidanzati, mariti, figli, pronti a versare il loro in prima linea. Per un attimo ho rivissuto il brivido provato contemplando “Il giuramento degli Orazi”, di David, ad una mostra romana. Il sangue dei miei 16 anni d’allora pulsava più forte man mano che, con lo sguardo, penetravo nell’anima dei tre eroi, tesi nella promessa di vincere o morire. Proprio come il mio sangue d’oggi, scorrendo con gli occhi la fila delle eroine. Ancora di quei giorni, un breve filmato: stavolta riproduzione esatta della situazione del quadro del pittore francese.
In un orto di campagna, sulla destra, un bambino sui cinque anni, con un bastone forse tratto da un ramo d’albero, che, con parole di comando, ordina dei movimenti a tre altri bambini, davanti a lui, un po’ più piccoli, il più piccino avrà tre anni, anche loro con un bastone. Il timbro di voce dell’istruttore, lo scatto dei suoi movimenti, il ritmo martellante in cui si dipanano, plasmano senza la minima sbavatura il timbro di voce delle risposte, la rapidità dello scatto, il ritmo dell’esecuzione degli altri tre.
Cerco, invano, seguendo il più piccino, di sorprendere in lui un segno, per quanto impercettibile, di minor forza, d’incertezza, di smarrimento. Niente. Sento echeggiare nelle fresche voci le parole dettanti i movimenti: slava Ukrainy. gheroi slava. “Gloria all’Ucraina, agli eroi gloria”. Era il giuramento dell’esercito ucraino.
18/3/’22 Mikolaiv. Un brevissimo spezzone. Dalla scalinata d’un budello cementificato afferente dal sottosuolo dove s’annida un rifugio, salgono dei militari, intuisco dalle barbe che sono ceceni. Uno di essi, un colosso, dal viso rubicondo di montanaro, stringe una neonata ucraina al petto. Mi par di vedere che l’innocente non è turbata, che percepisce solo il calore di quel torace rassicurante, quel calore di paternità che, più forte d’ogni altro istinto, dilaga nelle fibre di quell’uomo, che deve aver tante volte preso in braccio così i suoi figli, e trova naturale il farlo anche lì ed allora. Forse lo conforta in quel momento il ricordo di qualche insegnamento ricevuto in una moschea, o che nei secoli i suoi antenati avevano ricevuto, che salvare una bimba è cosa gradita ad Allah. Ma lo spezzone finisce, lasciandoci soli con quella speranza.