Con un amico entrai quella sera nella piccola trattoria che si nasconde dietro la curva della vecchia strada di campagna. C’era stato detto che la signora cuoca era brava nel cucinare il pesce. Non fu necessario il rito delle presentazioni, perché pensò la figlia della cuoca a ricordarmi della sua prima comunione e della sua cresima fatte in S. Michele Arcangelo. Anche la nonna, come segno di vecchia amicizia, mi ricordò di quando in una messa le feci imitare il gesto ampio del seminatore, perché lei, esperta di campi di grano, lo insegnasse ai bambini di città. Quel gesto servì a introdurre la parabola che racconta del seme che cadde parte sulla strada, parte in luogo sassoso, parte sulle spine, e parte sulla terra fertile… (Mt 13, 3-9).
L’anziana signora mi confessò poi che quel giorno tornò a casa felice perché aveva scoperto di avere un cuore disposto perfino a perdonare…
Quando si dice che con la predica si annuncia la buona novella è bene tener presente che, per la maggior parte della gente, nella predica non c’è novella alcuna, specie nel caso in cui il pugno del seminatore sparge intorno a sé solo aria fritta.
In alcune messe, al momento dell’omelia, lo spettacolo è desolante. Sull’ambone c’è il prete che dice parole e qua e là, sparsi tra i banchi, ci sono i fedeli che pensano ad altro, perché per abitudine ormai non si ascoltano le prediche.
1. Siamo un terreno fertile
Il dialogo in famiglia è sempre poco, si elemosina il tempo che si ha. La famiglia felice, tipo “Mulino bianco” è un prototipo troppo irreale, ma che ci piacerebbe copiare, con scarsi risultati e un’inquieta nostalgia del sogno impossibile.
E allora?… Ci si limita a parlare di “Come sei andato a scuola?”, oppure “Hai mangiato tutto?”, intervallate queste frasi dalla musichetta del televisore, mentre tuo marito non vede l’ora di andarsi a vedere il Telegiornale. Amen!… Fine della serata.
In tutto questo dove trova la giusta considerazione e collocazione il parlare del Vangelo? Di quel personaggio meraviglioso, di nome Gesù, che si è sacrificato per amore nostro…? Ecco, non parlare ai figli di Gesù, è non parlare di quell’AMORE… puro, grande, smisurato, incondizionato.
Tempo fa, alle elementari, ricordo ancora vagamente, recitavo una poesia che diceva così: “Se un giorno Gesù bussasse alla tua porta…”. Non ricordo neanche l’autore ma il senso sì: ai giorni nostri, se Cristo bussasse e noi gli aprissimo, lo riconosceremmo? E’ per questo che voglio partecipare, insieme a mio figlio Andrea alla catechesi familiare, per far conoscere e parlare di Gesù, di Dio, di come ci sono vicini, e di quanti fili invisibili ci collegano a loro. Voglio che Andrea sappia che c’è un Dio buono, un Dio amico che chiede di ascoltarlo e di seguirlo.
Quando un genitore intravede nella catechesi l’opportunità di attingere fiducia per ravvivare il dialogo in famiglia e per trasmettere al figlio la giusta idea di Dio, si prova gioia, ma si avverte anche il carico non indifferente della responsabilità.
Perché il messaggio cristiano possa “fare notizia” è necessario che chi lo annuncia confessi di non aver realizzato, lui per primo, il credo che professa. E’ necessario che chi lo annuncia e chi lo riceve non abbiano paura della verità, di quella che scende alle radici dell’esistenza facendola commuovere.
2. Un catechismo… per fare famiglia.
La nostra è una “famiglia militare”. A causa del lavoro di mio marito, abbiamo abitato in varie città e spesso lontano da lui per lunghi periodi. I nostri figli (21, 18 e 9 anni) sono stati cresciuti con l’idea e, speriamo, il sentimento che la nostra casa è dove siamo tutti insieme.
Quando i nostri figli più grandi sono stati in età da frequentare la chiesa e poi il catechismo, abbiamo pensato che questo avrebbe aiutato a “fare famiglia”, a sentirci parte di una comunità al di là della collocazione geografica. Le loro esperienze, vissute con le tante aspettative e la partecipazione propria dei bambini, sono state molto differenti. Per il primo è stata un’intensa, ma alla fine solitaria ricerca interiore; mentre per il secondo è stata una lunga serie di domande rimaste nel migliore dei casi inascoltate.
La nostra speranza è che Elisa (la terza) possa vivere questo periodo non come una “tappa obbligata”, ma come l’inizio di un lungo cammino di scoperte, serenità, condivisione e amore.
Il “fare famiglia” è un’arte difficile da insegnare. Si possono dare delle indicazioni, si consiglia ai genitori di leggere degli opuscoli, si creano dei movimenti a tale scopo… Ma la fatica della quotidianità può sciupare ogni cosa.
Anche il prete che vuole “fare comunità” deve essere un artista e, alla base dei suoi progetti, dovrebbe mettere il comandamento tradotto in termini di rapporti personali: “Considera le opinioni e le esperienze degli altri con la stessa serietà con cui consideri le tue!”.
E’ duro per un predicatore superare la tentazione di credere di possedere un’ottima teologia e con questa poter convertire chi lo ascolta. Non esistono né strumenti né tecniche, né abilità particolari per risolvere il problema. Forse è sufficiente che esistano una “spiritualità” e un modo di vivere che diano speranza a chi vuole condurre il prossimo ad una intuizione cristianamente liberatrice.
3. Amo gettato per recuperare i pesci…
Della catechesi familiare conosciamo le modalità, proprio per questo abbiamo scelto questa Parrocchia. Ne siamo venuti a conoscenza da parte di parenti ed amici che ce ne hanno parlato con trasporto ed apprezzamento. Dalla loro esperienza abbiamo dedotto che questo tipo di catechesi porta i genitori ad una riscoperta del rapporto con la Chiesa Cattolica e nel contempo a legare i bambini alle esperienze dei loro genitori in un possibile senso di continuità di questo rapporto.
Noi crediamo che in questo modo i genitori siano la base dalla quale i bambini debbano partire per cominciare il loro cammino nella Chiesa.
E’ inoltre apprezzabile che questo tipo di catechesi venga incontro alle esigenze della famiglia perché, razionalmente vuole costruire questo rapporto in un arco di tempo non troppo lungo, ma proprio per questo più intenso. Questa forma di Catechesi è un ottimo amo che i sacerdoti intelligenti gettano per recuperare i pesci alla Chiesa Cattolica.
I pesci non abboccano alle insidie di un potere, ma desiderano essere nutriti e nutrire chi guizza con loro nelle libere acque del convivere sincero. La “predica” è l’esercizio di un potere, ecco perché il più delle volte suscita indifferenza e irritazione. Il prete che fa del suo meglio per accostarsi a chi è ancora disposto a fare una visitina in chiesa di domenica, dovrebbe prendere atto di questa realtà e pensare seriamente a rimuovere gli ostacoli.
Ogni volta che si dà una risposta senza che ci sia una domanda, o si offre un appoggio dove non è necessario, o si espone un’idea quando non esiste desiderio di sapere… per il predicatore è un ritrovarsi solo, tagliato fuori dai problemi, dai desideri e dalle ansie della folla che fisicamente lo circonda.
Si scelga il dialogo!…
“Quello che tu dici a voce alta io lo sussurro nell’oscurità; quello che tu esprimi chiaramente io lo avevo sospettato; quello che tu metti in prima linea io lo avevo in fondo alla mente… Parliamone!”.