Le nuove sfide ambientali

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In un paio di miei articoli pubblicati sul mensile cartaceo di informazione locale “Castelli Notizie” (numeri del settembre 2021 e ottobre 2022) esponevo le ragioni per promuovere una politica improntata ad investire risorse nel campo della cura e della salvaguardia dell’ambiente sul territorio. In particolare, elencavo alcuni punti fondamentali a sostegno di iniziative e politiche rivolte alla realizzazione di veri e propri piani di riforestazione del territorio, sia nelle aree urbane, sia in quelle situate all’esterno dei centri urbani, come zone aperte collinari e montuose. Relativamente alla proposta di un serio progetto di riforestazione, mettevo l’accento sui seguenti punti:
1) la presenza di vegetazione (soprattutto d’alto e medio fusto) con lo sviluppo del proprio apparato radicale garantisce stabilità idrogeologica e regola il deflusso delle acque in eccesso, queste ultime dovute a fenomeni di intensa piovosità e tracimazione per esondazione di bacini o corsi fluviali;
2) in virtù dell’attività fotosintetica, la presenza di vegetazione garantisce l’abbattimento del tasso di anidride carbonica (che fra le altre cose è un gas serra) ed il conseguente arricchimento in ossigeno dell’atmosfera;
3) moltissime specie vegetali, in particolare quelle d’alto fusto e con morfologia latifogliare, garantiscono un sensibile abbattimento delle polveri sottili e del microparticolato (quest’ultimo costituito essenzialmente da ossidi di metalli pesanti, residui carboniosi di combustione, composti aromatici idrocarburici ad anelli policondensati variamente ricombinati con residui di cianoacrilati, benzopireni, diossine, etc., la cui presenza in atmosfera rappresenta una delle principali cause della stragrande maggioranza delle patologie respiratorie, nonché di moltissime affezioni oncogene sull’apparato tracheobroncopolmonare);
4) le piante riescono ad abbattere e degradare anche una estesa varietà di altre sostanze prodotte da attività antropiche, quali inquinanti industriali e prodotti pesanti di combustione;
5) la presenza della vegetazione crea benefiche modificazioni del clima locale (mesoclima) e di vaste aree continentali (macroclima), determinando l’instaurarsi di un tasso di umidità ottimale, che su vasta scala può tradursi in un favorevole aumento di piovosità, scongiurando così il verificarsi di lunghi periodi siccitosi;
6) molte varietà vegetali di medio ed alto fusto presentano uno spiccato potere fonoassorbente: grandi siepi di ginepri o di cipressi (alberi piuttosto resistenti con ottima resa nella crescita e con apparato radicale con morfologia a fittone, che si sviluppa cioè in profondità, e che quindi non determina problemi di sollevamento per le pavimentazioni di strade e marciapiedi) rappresentano efficientissime barriere isolanti acustiche, specie nei centri urbani.
     I punti qui sopra esposti rappresentano già in maniera chiara e sufficiente una base per motivare scelte politiche improntate non solo alla tutela e conservazione, ma anche ad un arricchimento ed accrescimento del patrimonio forestale presente nell’area del Parco dei Castelli Romani. Accanto alla cura del patrimonio boschivo, bisognerebbe anche rivedere seriamente le politiche e le azioni atte a regolamentare le attività agricole e zootecniche presenti sul territorio, orientandole il più possibile verso la realizzazione di colture ed allevamenti sostenibili e, per quanto realizzabile, ad impatto nullo o minimo sull’ambiente.

     Un secondo fronte di interesse che ci pone questioni impellenti è rappresentato dal settore delle risorse energetiche. Si sta dimostrando di sempre più cruciale importanza la ricerca di nuovi mezzi di produzione ed approvvigionamento energetico che possano rivelarsi sostenibili, sia dal punto di vista ambientale che economico. L’impennata dei prezzi di elettricità e gas si può solo in minima parte attribuire allo scoppio ed al perdurare del conflitto in Ucraina; negli ultimi mesi le quotazioni del prezzo del gas sono addirittura scese al disotto dei valori relativi al periodo precedente allo scoppio della guerra. È evidente quindi, che vi è stata una corsa, soprattutto da parte dei gestori di rete, verso manovre speculative e di profitto a danno dell’utente, sia quest’ultimo privato cittadino o azienda produttrice di beni che necessita per la propria attività di forniture energetiche adeguate. La privatizzazione nel campo delle forniture energetiche (la cosiddetta apertura al mercato libero) ha portato i vari gestori sul mercato ad intraprendere strategie speculative ad esclusivo danno degli utenti: strategie improntate al massimo profitto che hanno portato anche all’aumento del costo di molti altri beni e servizi, oltre quelli di fornitura energetica, come ad esempio nel settore alimentare e del commercio in genere: tutto ciò ha determinato la spinta inflattiva ed il rallentamento della nostra economia. Una risposta a queste sfide può trovarsi nel perseguimento della ricerca di nuovi mezzi di produzione e gestione di risorse energetiche. Lo sviluppo delle tecnologie nel campo delle fonti energetiche rinnovabili (eolico, fotovoltaico e, dove possibile, i più tradizionali geotermico ed idroelettrico) è cosa più che auspicabile dal punto di vista dell’impatto ambientale; tali risorse però non possono essere lasciate interamente nelle mani di gestori unicamente interessati al profitto e ben poco al sociale. L’istituzione delle comunità energetiche può senza dubbio rappresentare una prima risposta di fronte a tali problematiche.
     Una comunità energetica può in breve definirsi come una struttura ristretta su una determinata porzione territoriale (costituita ad esempio da un determinato numero di condomini o di strutture abitative, come ad esempio in diversi paesi del centro e nord dell’Europa) in grado di produrre autonomamente energia termica o elettrica che possa coprire in tutto o in buona parte il proprio fabbisogno energetico. Particolari condizioni favorevoli possono spesso portare una comunità energetica a produrre un surplus di energia elettrica che può essere messa in rete a beneficio anche di utenze esterne alla comunità stessa. Naturalmente quanto ora qui descritto rappresenta un primo approccio all’idea di comunità energetica, in quanto bisognerebbe tener conto delle normative recepite in ambito comunitario. In particolare, le indicazioni in proposito da parte della Comunità Europea sono orientate verso la possibilità di utilizzare come strutture base per le comunità energetiche i siti istituzionali e le strutture pubbliche o di pubblica utilità, come ad esempio sedi amministrative locali, scuole, ospedali, etc., anziché strutture private. Va naturalmente anche regolarizzata la procedura in base alla quale una comunità energetica potrebbe offrire una fornitura verso terzi, imponendo adeguati vincoli normativi.
     In molti paesi dell’Europa Centrale e Settentrionale, come Germania e Svezia, l’uso del fotovoltaico è ormai da svariati anni molto più diffuso che in Italia, sebbene si tratti di paesi in cui il grado di insolazione sia sensibilmente minore di quello caratteristico della nostra area mediterranea; in diversi paesi arabi si stanno prendendo in seria considerazione politiche indirizzate alla promozione del fotovoltaico, mentre in Israele trattasi di tecnologia il cui uso è all’ordine del giorno (molti kibbutz israeliani sono organizzati come vere e proprie comunità energetiche totalmente autonome ed autosufficienti). Basterebbe in definitiva cogliere come prezioso suggerimento la strada che in altri paesi si è intrapresa già da tempo. La comunità energetica rappresenta quindi un valido modello da prendere come esempio per non trovarsi impreparati di fronte alle sfide di quel futuro che è ormai il nostro oggi.

a cura di Lucio Allegretti.