Le conseguenze psicologiche dannose che riporta un figlio nell'assistere a episodi di maltrattamento, commessi dal padre nei confronti della madre, non sono meno gravi rispetto a quelli che riporterebbe nel caso il bambino ne fosse vittima. Questo il principio fissato dalla Cassazione penale che ha ritenuto valida ed ha confermato la condanna ad una pena più grave, stabilita dal Codice con un’aggravante unica, senza distinzione tra i maltrattamenti compiuti “in presenza” e quelli commessi “in danno” di persone minori.
COSA PREVEDE IL CODICE
Il reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi è previsto dall’articolo 572 del Codice penale, il quale stabilisce che chiunque maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Il secondo comma prevede che “la pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità”. La legge quindi, in considerazione della maggiore sensibilità a livello emotivo del minore che non abbia completato il proprio sviluppo psico fisico, equipara il bambino che assiste al maltrattamento della madre alla persona effettivamente maltrattata. Va sottolineato che si tratta di un aumento di pena non stabilito in maniera fissa, perché il giudice può aumentarlo “fino alla metà” proporzionandolo alla gravità di quanto accaduto nel caso concreto.
LA VICENDA PROCESSUALE
Un uomo viene condannato in sede di appello alla pena di sei anni di reclusione per maltrattamenti in famiglia, reato commesso in danno della compagna in presenza del figlio minore. Nel corso del giudizio è emerso molto chiaramente che l’uomo ha sottoposto per molto tempo (diversi anni) la compagna a crescenti vessazioni, umiliazioni, percosse e intimidazioni. Contrariamente a quanto affermato dal difensore dell'imputato tali maltrattamenti non si sono manifestati in modo episodico e sporadico. Infatti, è stato accertato che si è trattato “di una prolungata e unitaria sequenza di violenze fisiche e morali, perpetrate dall'imputato nei confronti della compagna”. L'imputato, a mezzo difensore, ha proposto ricorso in Cassazione sostenendo che nella convivenza ci sono stati anche periodi di calma e disapprovando la condanna inflitta per le dichiarazioni non veritiere rese dalla compagna in relazione ai fatti di cui è stato accusato. L'incolpato chiede poi che venga sollevata questione di legittimità costituzionale, ritenendo incostituzionale la norma codicistica sull’aggravio di pena, per il fatto che considera il minore che assiste al reato alla stregua della persona che lo subisce. Per il ricorrente il legislatore, ha irragionevolmente parificato la commissione di un delitto davanti a un minore al reato commesso in danno, violando in questo modo l'articolo 3 della Costituzione.
DECISIONE DELLA CASSAZIONE
In merito alla sollevata questione di illegittimità costituzionale, la Cassazione non ritiene incostituzionale e neppure illogica l'equiparazione fatta dal legislatore tra reati commessi in presenza o quelli ai danni di un minore. In entrambi i casi la ratio è la tutela di un soggetto debole. Per i giudici di legittimità infatti “il fatto commesso in presenza di un minore, soggetto ‘debole’ per definizione, non è certamente privo di un significato offensivo nei confronti del minore medesimo, la cui integrità psichica, nel breve e/o nel lungo periodo, può essere seriamente compromessa dalla diretta percezione di gravi episodi di violenza commessi in ambito familiare. La ratio dell'aggravante si correla, infatti, all'esigenza di elevare la soglia di protezione di soggetti i quali, proprio a cagione della incompletezza del loro sviluppo psico fisico, risultino più sensibili ai riflessi dell'altrui azione aggressiva, specie se commessa da un genitore in danno dell’altro, e possano così rimanere vulnerati (…)”. Viene pure precisato che, comunque, al giudice è rimessa la scelta discrezionale di applicare l'aggravante fino alla metà, modulando in questo modo l’aggravio di pena in base agli elementi di fatto accertati nel corso del giudizio. La Cassazione, quindi, non rileva alcuna irragionevolezza nel trattamento sanzionatorio inflitto per il fatto che l’imputato ha commesso il reato di maltrattamenti non direttamente sul figlio ma in sua presenza.
Quanto alla attendibilità della persona offesa, la Cassazione ribadisce quanto evidenziato dai giudici di merito secondo cui le dichiarazioni “già prive di profili interni di incongruità, contraddizione o inverosimiglianza, siano state coerentemente riportate nelle molteplici occasioni dichiarative, durante la quali la donna non ha mai manifestato alcun moto di animosità o risentimento nei confronti del compagno del quale ha riconosciuto anche alcune qualità personali come l’affettuoso e amorevole attaccamento al figlio più piccolo”. Narrazione che è stata confermata da altri riscontri, anche documentali (documentazione medica in atti, le riprese fotografiche, le dichiarazioni della madre). Una serie di elementi che, senza alcun dubbio, riscontrano “non solo la credibilità soggettiva della donna, ma anche il narrato reso da costei”. Per i suesposti motivi il ricorso è stato rigettato. Confermata la pena inflitta e la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa delle costituite parti civili.