Non si può non costatare la miseria politica di cui il cittadino si contorna oggigiorno. Non si tratta di pensare, capire ed immedesimarsi, bensì di prendere atto che l’intero sistema politico e di partecipazione ormai stia attraversando una crisi latente e soggiogatrice.
La coscienza collettiva interpreta gli stimoli dei governanti come inadempienti e inetti: il principio è giusto, se non altro si avvicina ad un’etica che di Platone vorrebbe maestro; tuttavia, il discorso non collima in aspetti propedeutici al cambiamento e al divenire. Non a caso, il logos, il pensiero critico richiede praxis e se non è presente, l’intero castello di propositi costituito crolla o diventa improvvisamente pericolante. Questa è la mente dell’italiano, nell’anno duemila ventidue riconosce che effettivamente una percezione di decadenza morale è già avvenuta e peggiorerà in catastrofe, ma insito nel grottesco mondo che accetta, si rende conto di una certa impotenza.
Questo credo ovviamente è falso e dimostro in questo breve scritto, il meccanismo che ne è alla base.
Se il particulare, citando un politico di nome Francesco Guicciardini (vissuto tra Quattrocento e Cinquecento) è “l’interesse personale che spinge alla massima realizzazione dell’interiorità e dell’intelligenza da applicare a favore di qualcosa”, esso non prevede una spinta egotistica, ma contempla la situazione in cui pragmaticamente lo scopo deve essere collimato, un po’ come affermava il nostro Machiavelli. Gli italiani invece sembrano inconsapevolmente negare il secondo postulato, si fermano al quieto vivere, alla meta di innovazione verso il guadagno e il vantaggio; sarebbero da definirsi “machiavellici” in gergo comune, anche se come abbiamo visto con De Sanctis, questo termine è stato abusato in tutta l’interezza della semantica.
La consapevolezza o qualsivoglia chiamarla concezione dello stato politico di cittadino impotente e “guicciardino” (permettetemi questo attributo) è la causa maggiore della corruzione della politica. Infatti, se citiamo Aristotele, non possiamo non accorgerci di molte similitudini di mal governo, presenti in quella che è definita la nostra cara Italia o Bel Paese ironicamente. Dunque, il nesso logico può sintetizzarsi nella seguente equazione: cittadino mal informato e disilluso – mancata partecipazione ai luoghi pubblici, di piazza e di confronto – voto senza cognizione – favoreggiamento dei politicanti in carica.
Nella realtà comunale, l’impotenza è coniugata nella mancata inventiva di iniziative popolari, che sfociano inevitabilmente nel pessimismo collettivo di “non osare” e di lasciare al destino questioni che avrebbero invece un’importanza cruciale per la riuscita di un ipotetico mutamento. Si preferisce delegare ad amici, a conoscenti e il chiodo fisso è “il favoreggiamento”, poiché ragionevolmente se si è impotenti e se si vuole (sottolineo il verbo volere) brancolare nel buio, dato che si è lascivi e disillusi, l’unico mezzo di partecipazione obbligata (nemmeno troppo) per vivere la dimensione familiare è quella di delega all’amico o al conoscente che popolarmente sia più quotato. Questa ingenuità impulsiva dà adito a mistificazioni ed alimenta un circolo che definirei “della politica a sé”, dove i cittadini, incapaci di metter bocca o mano su faccende esperienziali delegano e delegando al primo politicante, codesto reputa prioritario l’obiettivo del proprio ozio e della propria facezia di governo.
Siamo di conseguenza malati, io credo, malati di incoscienza e impurità. Non vorrei troppo soffermarmi su giudizi personali, anche se il mio istinto preme farlo.
Ritorniamo all’equazione che ho scritto poc’anzi, analizziamo l’incognita “politicanti”. Non sarebbe poi troppo scontato definirne i connotati, visto che il politico – governante ha già un grosso vantaggio di potere che può sfruttare a piacimento. Il problema è che l’ozio non risolve nemmeno i formalismi istituzionali e talvolta il governante è costretto a dover agire, coltivando la parvenza di giustizia sociale; però, sottolineo però, sarebbe generalista condannare tutti i politicanti comunali. Alcuni, infatti, sono indottrinati e vanno parzialmente compatiti. La retorica artificiosa di quel meccanismo gerarchico che crea la politica è solamente frutto di un iter educativo che avviene nelle sezioni di un’organizzazione partitica. Ci si abitua troppo alla differenza di ruolo. Certamente, affermare che un neo-militante abbia lo stesso sapere d’ambiente di un segretario è falso, sebbene sia pur giusto che il valore di un individuo si misuri per capacità razionali ed intenzione. E spesso, può accadere che il nuovo arrivato abbia più coscienza del bene comune rispetto al segretario preso in esame, ciononostante tutto il suo potenziale è annullato dalla subalternità di compiti che l’organizzazione stessa impone. Possibile che tale vizio non possa essere ridotto?
Per quanto si tenda a voler cercare un radicale mutamento, le dinamiche gerarchiche sono difficili da sradicare. Se non altro, chi ha tentato di portare in auge una struttura diversa di formazione ha fallito al governo nazionale, nella maggioranza parlamentare. Del resto, se la situazione prevalente dei Comuni italiani è drammatica, cosa possiamo attenderci da una sovrastruttura governativa e dai coordinamenti regionali? Solo una confusione, senza né capo e né coda.
Queste motivazioni addotte sono sociologiche, per quelle storiche, credo che tutti (o quasi) sappiamo gli eventi che con schiettezza hanno messo in luce le nostre velleità dal punto di vista politico: ne rammento uno, la spedizione dei Mille garibaldina, lì ad esempio era già manifesto questo atteggiamento popolare di lascività e opportunismo, nella Sicilia, nei ruoli politici da assegnare e negli incarichi di lavoro. Constatato ciò, la sorpresa non si fa attendere in me. Possibile che io debba correlare ogni vicenda italica a questo lassismo? Sarebbe corretto parlare di atteggiamento di un popolo o si risulterebbe superficiali? A dire il vero, non ho trovato ancora nessuna risposta a questa domanda che non di rado si palesa.
Inutile, inoltre, che io elenchi altre conseguenze frequenti di questa indifferenza: Il voto di scambio non è stato inserito nemmeno nell’ipotetica equazione del cittadino disilluso, dato che so per certo che sia un risultato diretto del fenomeno citato di cui nessuno vuole prendere atto.
Appurate le cause, come si rinnova, come si rivoluziona? A mio avviso serve un condottiero. Non utilizzo questo termine per sottolineare l’uomo forte, con ciò credo che i partiti siano prettamente statici e immutabili.
Le modifiche potrebbero giungere dall’interno. Un gruppo di individui, predisposto all’equità sociale, avrebbe modo, guidato da un leader di sovvertire l’apatia dilagante di una linea politica inesistente.
Quest’ultimo avrebbe capacità di dettarne una, sintetizzata con le idee degli altri componenti; diventerebbe così un ambasciatore dell’idealismo ed è altresì obbligato a rispettare il patto da primus inter pares, altrimenti perderebbe il suo ruolo – guida che ha guadagnato. Non basta, deve anche agire da saggio, scandagliando i problemi del popolo, mostrandosi come esempio sempre presente, senza ignorare le richieste impellenti della cittadinanza.
Se tutto ciò avviene, il cittadino si sente protetto, sicuro, apprezzato e valorizzato individualmente. Questo effetto sfugge a molti sindaci caparbi e anche capaci, i quali sono erroneamente convinti che alcune risoluzioni debbano essere favorite esclusivamente dal Consiglio di rappresentanza. Lasciatemelo dire, il voto non è il fine. Il voto è lo strumento con cui si sceglie, non bisogna rinchiudersi nei palazzi del potere. Umilmente, bisogna scendere in piazza e arricchirsi. Non si è mai perfetti, alcune volte è necessario ascoltare per rendersi conto degli errori commessi. Il più umile popolano può insegnare e non è una fiaba o una favola greca. Se l’abitante sbaglia poi, non costa nulla correggerlo, educarlo. Con ciò è più facile essere in torto nella sede di governo, dato che si è soggetti a una forma di alienazione inebriata dal potere piuttosto che in un luogo pubblico di aggregazione.
Alessandro Conti