Luca Leoni torna in Libreria con “Ladri di lucciole”: “Cibo per la creatività”
Una nuovo libro, altre storie, la medesima bellezza nel gusto della lettura. Luca Leoni, scrittore di Velletri, torna in Libreria con “Ladri di lucciole”, un titolo che rimanda a un esperimento letterario e teatrale nato quasi per caso e diventato un piccolo gioiello dal punto di vista narrativo. Con quest’opera, infatti, Leoni torna nel passato e lo cuce al presente e al futuro, riscoprendo le radici della sua terra e ridando voce a personaggi realmente esistiti un po’ stemperati dalla fantasia.
Luca Leoni, una ultima fatica letteraria o teatrale, la tua? Il testo è sicuramente validissimo dal punto di vista narrativo, ma si presta deliberatamente alla recitazione…
È la prima volta che scrivo un testo teatrale, ossia con tanti dialoghi tra i personaggi e anche con qualche monologo. Preferisco le descrizioni, perché mi riescono meglio, e vedo questo mio lavoro qualcosa a metà tra ‘Assassinio nella cattedrale’ di T.S. Eliot e ‘L’avventura di un povero cristiano’ di Ignazio Silone. E poi gran parte dei dialoghi sono in dialetto velletrano, una sfida vera e propria in un contesto, il nostro, nel quale il dialetto viene difficilmente preso sul serio: per la maggior parte dei nostri concittadini, il dialetto ‘fa ridere’…
Chi sono i ladri di lucciole e perché la dicitura “un atto e mezzo” di teatro, che rimanda alla sfera casareccia del quantificare le cose pur riferendosi a un testo e quindi a una dimensione intellettiva?
I ladri di lucciole siamo noi, durante la nostra fanciullezza, quando avevamo quasi tutti dei parenti che vivevano vicino al bosco del monte Artemisio e in estate, quando calava la notte, le lucciole creavano un’atmosfera magica. La dicitura ‘un atto e mezzo’ si riferisce a una sfera casareccia della trama ma è nata pensando a ‘un etto e mezzo’ di qualcosa che diciamo al banconista del supermercato per quantificare un bisogno nutritivo. Perché il teatro, non dimentichiamolo, è nutrimento per la fantasia e per l’anima. ‘Ladri di lucciole’ va considerato ‘un etto e mezzo’ di cibo per la creatività.
C’è un collegamento con una tua precedente opera, “Righi sulla cenere”. Quale?
‘Righi sulla cenere’ è stato, nel 2013, il mio romanzo autobiografico costituito da qualche centinaio di racconti brevi. E siccome volevo comporre un testo teatrale dall’anima autobiografica, ho attinto a piene mani dai personaggi ivi contenuti. Ovviamente con alcune novità.
In che senso è un esperimento questa tua creazione?
L’attore e regista Gennaro Duccilli mi propose, nel primo autunno 2022, di creare un evento teatrale da dedicare allo scrittore gallese Dylan Thomas nel 2023, nella ricorrenza del settantesimo della sua scomparsa. Mentre consultavo materiale sia letterario che cinematografico, essendo lo scrittore molto legato al suo Galles e quindi alla sua lingua, m’è venuto in mente di creare qualcosa di nuovo e di mio con il dialetto velletrano. È in questo che sta il mio esperimento.
Quanto di Luca c’è in Clemente, quanto di Clemente c’è (o vorresti che fosse) in Luca?
Clemente e Luca si compenetrano e si compensano, sono due facce della stessa medaglia. Sono i due nomi della stessa vicenda biografica, sebbene ampliata con tratti di fantasia.
Molti personaggi sono reali. Ce ne puoi raccontare qualcuno, ad esempio Mario o’ Veneto o Giannina ‘a legantina, due che hanno particolare fascino?
Mario l’ho conosciuto, me lo ricordo bene. Perse una figlia piccola e quel lutto lo segnò per tutta la vita. Il suo personaggio l’ho rielaborato, ma sempre su basi reali. Così come Giannina, ma non vado oltre per non condizionare la loro identità letteraria e teatrale. Giannina rappresenta il luogo comune, tutto da sfatare, secondo il quale tutte le donne che si trasferivano a Roma andavano a praticare la prostituzione. Lo sottolineo, nella trama, il vero ruolo di Giannina.
A un certo punto Clemente “se ne va, scegliendo di vivere”. Che scelta è?
Non si può vivere di ricordi, non si può e non ci si deve crogiolare in un mondo di affetti che non esiste più. Si deve avere una propria vita, crearsela e gestirla ogni giorno in modo attivo.
Quanto ha pesato nella scrittura di questo testo vedere la discrepanza fra la Velletri sfondo di allora e la Velletri presente e attuale?
Due mondi lontani, come divisi da un’enorme faglia di Sant’Andrea temporale e culturale. È proprio in questo contrasto che può nascere poesia e Bellezza.
Come consideri il dialetto e che valore gli dai nel bagaglio culturale di una persona?
Il dialetto è la lingua madre di una persona, e ciascun dialetto ha la stessa identica dignità della lingua ufficiale. È lo scrigno che contiene tutto il DNA di una persona, ben radicato nel passato ma con un solido presente e uno speranzoso futuro.
Si può dire che questo libro è un dialogo tra i tempi, uno venuto prima e uno venuto dopo?
È costituito da due trame principali che s’intersecano tra loro, che a mio avviso possono annullare, nella loro valenza universale (l’identità e i dubbi relativi ad essa, la pazzia, la guerra, la condizione della donna, etc.), la dimensione temporale.
Hai preso in prestito molte citazioni di grandi artisti, da Gaber alla Woolf. Un modo come un altro per dire che in fondo tutta questa distanza non c’è fra la dimensione ritenuta mondiale della letteratura e le storie di vita vera e vissuta che hanno una dimensione popolare?
I più grandi letterati si sono raramente allontanati, non solo biograficamente, ma anche nell’ambientare le loro opere, dai loro luoghi di nascita. Proprio questa fedeltà e aderenza coerenti, con certe minuzie proprie di un microcosmo, ne costituiscono l’aspetto secondo me più universale.