L’ultima sentenza della Cassazione sui permessi della legge 104

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I permessi retribuiti di cui alla Legge 104 continuano ad alimentare controversie giudiziarie su limiti e obblighi cui è tenuto il lavoratore o lavoratrice, con funzioni di assistenza del familiare invalido. Si può considerare ormai consolidato, con quest’ultima esplicativa sentenza, l’indirizzo della Cassazione secondo cui l’aiuto al parente disabile può comprendere attività non strettamente legate alla presenza del lavoratore accanto al familiare e quindi l’assistenza va intesa in senso ampio.
In questa vertenza, come in molte altre nelle quali si impugna il licenziamento, si è anche cercato di far valere l’illegittimità del controllo dei lavoratori in permesso tramite investigatori privati. È sempre più frequente infatti il ricorso alle agenzie investigative per scoprire i dipendenti che abusino dei permessi. Sullo stesso argomento ho già commentato recentemente su questo giornale una similare sentenza https://velletrilife.it/sul-licenziamento-per-abuso-dei-permessi-legge-104/. Quest’ultima della Cassazione, riepilogativa della situazione, mi dà l’occasione per tornare sulle regole da rispettare e su cosa è bene sapere per non correre il rischio di essere licenziati, per violazione degli obblighi cui il lavoratore in permesso deve attenersi.

LA VICENDA

Nella vicenda conclusasi in Cassazione, la dipendente di un supermercato con il padre invalido, beneficiava dei permessi di cui alla legge 104 per assisterlo. Il datore di lavoro del supermercato, sospettando un possibile uso illegittimo di tali permessi, incaricava un investigatore privato di eseguire verifiche, finalizzate ad accertare cosa facesse la donna nei giorni in cui usufruiva dei permessi.
Dalle indagini dell’investigatore privato è emerso che la donna in effetti si recava per qualche ora alla casa del padre, ma nelle restanti ore che aveva a disposizione effettuava diverse altre attività. Sulla base di tali informazioni, l’azienda datrice di lavoro procedeva al licenziamento, contestando l’uso abusivo dei permessi in questione, in quanto in parte utilizzati per soddisfare esigenze personali anziché del padre disabile.

L’OPPOSIZIONE AL LICENZIAMENTO

Nell’atto di impugnazione del licenziamento, la donna evidenziava come l’assistenza possa realizzarsi anche compiendo attività fuori del domicilio dell’assistito purché nel suo interesse; dimostrando che le attività effettuate (spesa, posta, farmacia, medico) erano state svolte nell’interesse del genitore.
Incentrava la propria difesa facendo osservare che non necessariamente (e non sempre) l’assistenza deve (e può) concretizzarsi esclusivamente con la presenza presso l’abitazione del disabile, ma può realizzarsi anche compiendo attività “esterne”. Sta di fatto che Tribunale, Corte di Appello e poi la Cassazione le hanno dato ragione. Infatti, la Corte territoriale aveva confermato la decisione di primo grado, che disponeva la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno, ritenendo che le attività svolte durante i giorni di permesso (quali commissioni di carattere medico e logistico per conto del familiare) fossero comunque riconducibili all’assistenza, anche se non completamente svolte presso l’abitazione del disabile. Avverso tale pronuncia, l’azienda datrice di lavoro ha proposto ricorso in cassazione.

LE MOTIVAZIONI DELLA CASSAZIONE

Con l’ordinanza numero 26417 del 10 ottobre 2024, la suprema Corte, richiamando la precedente giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto opportuno fissare alcuni paletti.
Dato per assodato, che nel caso in cui il lavoratore dovesse utilizzare i permessi in questione per finalità personali estranee all’assistenza è sanzionabile disciplinarmente col licenziamento, in quanto viene a configurarsi l’abuso del diritto in questione (cfr. Cassazione 8784/2015 e Cassazione 17968/2016); ribadisce che l’assistenza non può essere intesa riduttivamente come semplice aiuto personale al soggetto disabile da svolgersi esclusivamente presso la sua abitazione. Deve necessariamente comprendere anche quelle attività, eventualmente svolte al di fuori dalla sua abitazione, che il congiunto non è in grado di effettuare in autonomia (Cassazione 12679/2024 – 6468/2024 – 25290/2022 – 1394/2020 – 21529/2019 – 30676/2018 – 23891/2018 – 29062/2017 – 17968/2016 – 9217/2016 – 8784/2015). Viene pure evidenziato, rafforzando un’ormai consolidata giurisprudenza, che “elemento essenziale dell’assistenza è l’esistenza di un diretto nesso causale tra la fruizione del permesso e l’assistenza alla persona disabile, precisando che tale nesso causale va inteso non in senso così rigido da imporre al lavoratore il sacrificio, in correlazione con il permesso, delle proprie esigenze personali o familiari in senso lato, ma piuttosto quale chiara ed inequivoca funzionalizzazione del tempo liberato dall’obbligo della prestazione di lavoro alla preminente soddisfazione dei bisogni della persona disabile, senza automatismi o rigide misurazioni dei segmenti temporali dedicati all’assistenza in relazione all’orario di lavoro”.
La Corte ha altresì ribadito che “non integra abuso la prestazione di assistenza al familiare disabile in orari non integralmente coincidenti con il turno di lavoro, in quanto si tratta di permessi giornalieri su base mensile, e non su base oraria”. La richiesta è riferita all’intera giornata per consentire al datore di lavoro di organizzarsi e per il fatto che il dipendente potrebbe non sapere esattamente quali incombenze dovrà adempiere nell’interesse del disabile assistito e quanto tempo sarà necessario per il loro assolvimento.
Per questa ragione, “in concreto e caso per caso l’assistenza potrà essere distribuita durante l’arco della giornata secondo le varabili esigenze del disabile e secondo la tipologia delle incombenze da adempiere”.

LICEITÀ ATTIVITÀ INVESTIGATIVA

Per quanto riguarda il ricorso alle agenzie investigative per scoprire i dipendenti che abusino dei permessi, l’attività investigativa è del tutto lecita, come più volte confermato dalla giurisprudenza, perché in questo caso è finalizzata all’accertamento di atti illeciti del lavoratore o comportamenti con risvolti penali.
Attraverso il pedinamento e controllo continuo del dipendente in permesso, gli investigatori privati mediante report fotografico e video possono accertare la realtà dei fatti e provare eventuali comportamenti illeciti penalmente rilevanti (in quanto integranti il reato di truffa ai danni dello Stato) tali da giustificare il licenziamento. In molti casi si tratta di attività di web intelligence (OSINT e SOCMINT) per la raccolta di elementi di prova dal web. Può sembrare strano, ma molto spesso è lo stesso dipendente a pubblicare online prove delle sue condotte illecite. L’investigatore privato, se necessario, può essere chiamato a testimoniare in tribunale, per confermare quanto riportato nel dossier investigativo. Resta accertato in giurisprudenza che l’ingerenza dell’investigatore privato non può spingersi oltre un determinato limite, non può riguardare l’adempimento o l’inadempimento dell’obbligo del lavoratore di prestare la propria opera, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore. Tornando alla decisione in commento, a tale riguardo, viene evidenziato che “è consentito al datore di lavoro effettuare dei controlli, onde verificare che il dipendente stia utilizzando i permessi in conformità alla legge, ad esempio ricorrendo anche ad agenzie investigative od a strumenti tecnologici, purché le investigazioni siano circoscritte all’accertamento di fatti estranei all’esecuzione della prestazione lavorativa, come avvenuto nel caso in esame”.