Ultimo aggiornamento:  8 Novembre 2023

Maltrattamenti del datore di lavoro: straining o mobbing?

Indipendentemente dalla qualificazione come straining o mobbing, l’atteggiamento persecutorio del datore di lavoro è un fatto illecito che deve essere sempre valutato al fine del risarcimento del danno.  Quello che conta valutare in questi casi è se il fatto commesso, anche isolatamente, sia comunque un fatto illecito da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al livello costituzionale che è il più elevato livello dell’ordinamento. La suprema Corte, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, ha delineato i tratti distintivi dello “straining” con la similare fattispecie di “mobbing”, confermando, quanto al risarcimento del lavoratore, la giurisprudenza già formatasi sul punto.

STRAINING E MOBBING, PRINCIPI DISTINTIVI

Spesso viene utilizzata l’espressione mobbing per definire ogni situazione di malessere e disagio sul luogo di lavoro dovuto a un comportamento oppressivo e discriminatorio del datore, nei confronti di qualche dipendente. Tuttavia, nel panorama giuridico (prevalentemente giurisprudenziale ma anche normativo) si sono delineate due figure differenti e specifiche per definire situazioni di conflittualità lavorativa parzialmente coincidenti per il fatto che entrambe determinano una situazione di stress nel lavoratore o nei lavoratori vessati dal superiore. Con il termine straining (mettere sotto pressione) ci si riferisce ad un comportamento persecutorio del datore di lavoro non continuativo. Può essere anche un solo episodio opprimente o umiliante per il dipendente. Classici esempi di straining possono essere considerati l’ingiustificato demansionamento, la marginalizzazione, lo svuotamento di mansioni.  

Mentre lo straining, può essere costituito anche da una sola azione, che crea nella vittima un effetto negativo duraturo, il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più “aggressori” in posizione superiore.

Quanto all’origine della definizione, lo straining si può dire che è nato in sede giurisprudenziale (Trib. Bergamo, 21 aprile 2005) quando nel corso di una vertenza, richiamando i principi distintivi sopra delineati, sono state definite con il termine straining, anziché mobbing, quelle situazioni in cui anche una singola azione con effetti duraturi nel tempo, anche in quel caso si trattava di demansionamento, può essere sufficiente a destabilizzare il lavoratore.

IL CASO

Il giudizio viene promosso da un lavoratore demansionato che chiede un risarcimento ritenendo di aver subito danni per mobbing, determinato dalla condotta vessatoria del proprio datore di lavoro ossia: demansionamento, stato di inattività totale ed emarginazione, pressioni per accettare il trasferimento. Il primo giudice accoglie sia la domanda di inquadramento superiore che la richiesta di risarcimento. La corte d’appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha riconosciuto il diritto all’inquadramento superiore del lavoratore ma ha negato il risarcimento danni richiesto per mobbing. Pur avendo accertato la dequalificazione commessa ai danni del lavoratore ha escluso il mobbing per mancata prova della reiterazione della condotta riferita ai singoli fatti.

Secondo la corte d’appello in mancanza “della sistematicità di una condotta vessatoria persecutoria o discriminatoria reiterata e protratta nel tempo”, il comportamento del datore di lavoro o del superiore gerarchico non poteva qualificarsi come mobbizzante.

Il lavoratore ricorre in Cassazione dove tra l’altro fa valere la violazione dell’articolo 2087 del Codice civile sulla tutela delle condizioni di lavoro, che obbliga l’imprenditore datore di lavoro a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

La suprema Corte, dichiara fondati i motivi del ricorso annulla la sentenza con rinvio al giudice di merito obbligato ad attenersi ai principi espressi nella sentenza.

DECISIONE DELLA CASSAZIONE

La suprema Corte, con l’ordinanza 19 ottobre 2023, n. 29101, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, ha delineato i tratti distintivi dello straining dalla vicina fattispecie di “mobbing”, confermando la giurisprudenza già formatasi sul punto.

Lo straining, viene specificato nella sentenza, rappresenta una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità. Tuttavia, se viene accertato il primo e non il secondo, la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta, in quanto la tutela del diritto fondamentale del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’articolo 2087 c.c.

La creazione di un “ambiente lavorativo stressogeno” con condotte datoriali considerate vessatorie ha valore dirimente quale fatto ingiusto, anche quando tali azioni siano apparentemente lecite o solo episodiche.

Precisa infatti la suprema Corte che, gli elementi della reiterazione, l’intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente in termini di quantificazione del risarcimento dovuto, “ma non anche in termini di sussistenza o meno dell’illecito datoriale, posto che nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno”.

Dopo aver ripercorso i fatti della causa, ha affermato che al di là della qualificazione come mobbing e straining, “quello che conta in questa materia è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica)”.

Citando altra recente ordinanza n. 3692 del 07.02.2023, adottata dalla Corte stessa,  chiarisce che la propria decisione si inserisce nel solco di una più ampia giurisprudenza, che mette in evidenza il valore dirimente di un “ambiente lavorativo stressogeno” quale fatto ingiusto, “suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087”.

In conclusione, la sentenza impugnata è stata cassata in relazione ai motivi accolti, la causa è stata rinviata alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che dovrà emettere la decisione definitiva attenendosi ai principi sopra indicati, provvedendo anche alla liquidazione delle spese del giudizio di Cassazione.

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