Il Covid e gli altri virus, contratti sul posto di lavoro, possono essere considerati malattia professionale e quindi beneficiare della copertura assicurativa Inail, anche quando non si individua una specifica causa per l’infezione e non viene dimostrato “l’evento infettante”. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione che ha accolto il ricorso di un infermiere che si era rivolto all’autorità giudiziaria sostenendo di aver contratto l’epatite C in una RSA mentre accudiva anziani ammalati. I giudici di merito non avevano accolto la sua richiesta di indennizzo perché non aveva fornito “la prova rigorosa dell’evento infettante in occasione di lavoro”. Per i giudici di legittimità, invece, il nesso causale (collegamento) tra l’attività svolta e la malattia professionale doveva “presumersi” senza la necessità che il lavoratore dimostrasse di essersi punto con una siringa e sporcato con sangue infetto.
L’importanza della decisione sta nel fatto che si contrappone all’indirizzo giurisprudenziale preminente secondo cui, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, la prova del nesso causale non può consistere in “semplici presunzioni desunte da ipotesi teoricamente possibili”.
Ci sono buoni motivi per ritenere che sul cambio di indirizzo giurisprudenziale abbia avuto una sua influenza la circolare dell’Inail del 2020 che, considerata la modalità di diffusione della malattia del coronavirus, ha stabilito che per dimostrare l’origine professionale della malattia è sufficiente una presunzione semplice.
LA VICENDA PROCESSUALE
La vicenda riguarda un infermiere professionale, in servizio presso una RSA, che si è rivolto ai giudici sostenendo di aver contratto un’infezione da virus HCV (epatite C), a causa del lavoro di assistenza ad anziani malati e con problemi di epatite. Rimasta inevasa la domanda per avere la copertura Inail, ricorre giudizialmente per ottenere l’indennizzo in rendita o in capitale. In prima istanza il Tribunale e successivamente, nel secondo grado di giudizio, la Corte di appello rigettano la richiesta ritenendo che l’infermiere non era riuscito a provare di essersi punto con una siringa o di essere venuto direttamente a contatto con sangue infetto. Secondo il giudice d’appello il lavoratore avrebbe dovuto dimostrare “il nesso causale dipendente dagli effetti patologici dell’infortunio professionale che si sia sicuramente verificato, vertendo la questione sulla certa individuazione del fatto all’origine della malattia”. In parole più semplici, la Corte di Appello, si è conformata al principio secondo cui per l’accoglimento della richiesta è necessario individuare il fatto specifico che ha originato la malattia.
RICORSO IN CASSAZIONE
L’infermiere impugna la decisione con ricorso in Cassazione, concentrando la critica su tre punti principali:
- l’Inail non poteva rifiutarsi di riconoscere la copertura in quanto l’origine lavorativa dell’infezione virale era stata accertata dalla commissione per l’indennizzo, organo di riferimento del Ministero della salute;
- in presenza di una malattia già tabellata di origine multifattoriale, doveva ritenersi inutile la prova certa che la malattia derivasse dal lavoro;
- infine fa presente che sarebbe stato ragionevole collegare l’infezione contratta al contesto lavorativo essendo compatibile con le mansioni svolte.
DECISIONE DELLA CASSAZIONE
La Cassazione, dopo aver esaminato congiuntamente i vari motivi, accoglie il ricorso sancendo che i giudici di merito “con una motivazione non sempre coerente e lineare”, hanno errato nel concludere il loro ragionamento affermando che il lavoratore avrebbe dovuto dare “la prova rigorosa dell’evento infettante in occasione di lavoro”. Nella situazione rappresentata, neppure avrebbero dovuto ritenere indispensabile la necessità di una “individuazione certa del fatto origine della malattia”. Dopo avere sancito l’infondatezza di alcune affermazioni dell’infermiere, la Corte suprema ha fissato il seguente principio: “nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatomo-fisiologico, sempre che tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell’infezione (…) la relativa dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici.”. Si può concludere dicendo che i virus contratti sul luogo di lavoro, in determinate circostanze, sono da considerare malattie professionali anche quando non viene dimostrato l’evento infettante.
CIRCOLARE INAIL
Per completezza di informazione c’è da dire che l’Inail, con la circolare n. 13 del 3 aprile 2020, cui ho fatto cenno, pubblicata in applicazione del decreto legge Cura Italia, ha fornito indicazioni sulle prestazioni garantite in caso di contagio di origine professionale. Sostanzialmente, ha stabilito che la tutela assicurativa per i casi di infezione da Covid 19 va applica innanzitutto agli operatori sanitari, in quanto esposti a un elevato rischio di contagio, e ad altri lavoratori che operano in contatto con l’utenza, ma si può estendere anche ai casi in cui l’identificazione delle cause del contagio si presenti più difficoltosa, con la precisazione che “considerata la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus”, la semplice presunzione può ritenersi sufficiente per dimostrare l’origine professionale della malattia.