Può esserci violenza sessuale anche se la moglie non manifesta dissenso
Il reato di violenza sessuale è configurabile anche se la moglie accetta rapporti sessuali col marito perché rassegnata a non reagire a causa di violenze e minacce. La Cassazione ricorda che in tema di violenza sessuale, la mancanza di un esplicito e dichiarato dissenso non equivale ad un consenso presunto. Occorre considerare che in tale eventualità, l’autodeterminazione della donna è fortemente compromessa dalle violenze fisiche o psicologiche ed il mancato esplicito dissenso non può giustificare la violenza ed evitare la condanna del marito violento
LA VICENDA
Nel caso di specie, a ricorrere in Cassazione è stato un uomo condannato, sia in primo grado dal Tribunale che in sede d’appello dalla Corte territoriale, per maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale in danno della moglie. La donna, costituitasi parte civile dopo la denuncia del marito, chiedeva ed otteneva anche il risarcimento dei danni subiti. Davanti ai giudici del Palazzaccio, l’uomo censurava la sentenza impugnata per “il “travisamento” in cui la Corte territoriale sarebbe incorsa a proposito delle dichiarazioni del portiere dell’albergo gestito dai coniugi, il quale aveva smentito il racconto delta donna, negando in particolare di dover essere corso in aiuto della donna percossa dal marito nel corso di un alterco”. Inoltre, secondo il ricorrente i giudici avrebbero dovuto considerare motivo di non punibilità “la mancanza di un dissenso manifesto, con conseguente possibilità di configurare un ‘consenso presunto’”.
LA CASSAZIONE SUL CONSENSO PRESUNTO
Quanto all’asserita configurabilità di un “consenso presunto”, in mancanza di un manifestato esplicito dissenso, la Cassazione richiama il consolidato indirizzo secondo cui “in tema di violenza sessuale, il mancato dissenso ai rapporti sessuali con il proprio coniuge, in costanza di convivenza, non ha valore scriminante quando sia provato che la parte offesa abbia subito tali rapporti per le violenze e le minacce ripetutamente poste in essere nei suoi confronti, con conseguente compressione della sua capacità di reazione per timore di conseguenze ancor più pregiudizievoli, dovendo, in tal caso, essere ritenuta sussistente la piena consapevolezza dell’autore delle violenze del rifiuto, seppur implicito, ai congiungimenti carnali” (da ultimo Cass. 29 settembre 2021 n. 35676 Cass. n. 17676/2018). In merito a quanto già deciso, nella vicenda de quo, i giudici di legittimità fanno rilevare che “la Corte d’Appello ha diffusamente motivato la decisione di confermare la condanna del A.A. per entrambi i reati a lui ascritti, soffermandosi, in primo luogo, sugli elementi ritenuti indicativi della piena attendibilità della persona offesa, sia quanto alle continue vessazioni subite durante la convivenza coniugale (produttive di conseguenze psicofisiche di immediata evidenza), sia anche sul fronte dei rapporti sessuali tra coniugi, imposti contro la volontà della donna (…)”. Il ricorso pertanto è stato dichiarato inammissibile in quanto, tacendo sulle risultanze dell’istruttoria in merito a quanto emerso con riferimento alle vessazioni subite dalla donna e alle ricadute sul fronte dei rapporti sessuali, si sostanzia “nella prospettazione di una diversa e più favorevole lettura delle risultanze medesime, il cui apprezzamento è precluso in sede di legittimità.La dichiarata inammissibilità del ricorso ha comportato la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000 in favore della Cassa delle Ammende.
ORIENTAMENTO UNIVOCO
In estrema sintesi, in linea generale si può dire che tutta la giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso che nei reati sessuali il dissenso è da presumersi “quando non sussistono indici chiari e univoci, volti a dimostrare l’esistenza di un consenso, sia pur tacito ma comunque inequivoco”. Una recente decisione partendo dal presupposto che non esiste nessuna norma fra le disposizioni legislative che imponga, a carico del soggetto passivo del reato, un onere implicito o esplicito, di manifestazone del dissenso per quanto riguarda l’ingerenza nella sua sfera di intimità sessuale; “si deve ritenere che tale dissenso sia da presumersi, laddove non sussistano indici chiari ed univoci volti a dimostrare la esistenza di un, sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco, consenso”. (Cass. Pen. 22.11.2016, n. 49597)
Secondo un’altra interessante decisione, la libertà sessuale è assistita da tutela di rango costituzionale, quale diritto inviolabile dell’individuo ex articolo 2 della Costituzione “ne deriva che il reato di violenza sessuale risulta integrato non solo da una condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui attuata in presenza di un manifesto dissenso della vittima, ma anche quando detta condotta risulti posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita, dalla persona offesa”. Più precisamente: “la manifestazione del dissenso può essere anche non esplicita, ma per fatti concludenti, chiaramente indicativi di una contraria volontà e può intervenire in itinere determinando l’illiceità di atti sessuali originariamente leciti”. (Cassazione penale, sentenza 15.10.2019 n. 42118).
CASI DI MINORE GRAVITA’
L’ultimo comma dell’art. 609-bis del Codice penale sulla violenza sessuale, prevede che “nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”. La norma penale non definisce quali siano i casi di minore gravità che legittimano l’applicazione della circostanza attenuante (atti di libidine? palpeggiamenti? toccamenti lascivi?). In mancanza di una specifica previsione legislativa, l’individuazione concreta di questi casi di minore gravità viene, quindi, rimessa al giudice penale, che dovrà stabilire di volta in volta quando riconoscerne la sussistenza e quando, invece, escluderla. La Cassazione ha stabilito che al fine di valutare la ricorrenza o meno di tale attenuante speciale “il giudice deve fare riferimento, oltre che alla materialità del fatto, a tutte le modalità che hanno caratterizzato la condotta criminosa, nonché al danno arrecato alla parte lesa, anche e soprattutto in considerazione dell’età della stessa o di altre condizioni psichiche in cui questa versava al momento del fatto, dovendo comunque escludersi la concedibilità dell’attenuante speciale ove gli abusi perpetrati in danno della vittima si siano protratti nel tempo” ( Cass. pen., 6 ottobre 2010, n. 638). In tempi più recenti, i giudici di legittimità hanno ribadito che “Per la concessione della circostanza attenuante del fatto di minore gravità in ambito di reati sessuali, occorre la previa valutazione degli elementi di fatto in grado di dimostrare l’effettiva compromissione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice”. (Corte di Cassazione del 10 novembre 2021, n. 40559)