C’è un senso di leggerezza aulica nell’antologia poetica “Una goccia di rugiada”, ultima fatica letteraria del “promettente affermato” Lorenzo Pistolesi. L’autore, con questa raccolta di liriche che risalgono a periodi diversi della sua giovane età, riesce a trasmettere un messaggio limpido e confortante: esiste, per fortuna, la possibilità di una poesia “da 2022”, fresca, moderna e non banale ispirata – tra le altre cose - a modelli e canoni autorevoli come Guinizzelli, Cavalcanti e non solo. Nel contempo, però, quelli di Pistolesi non sono versi che fanno “il verso” al passato o strizzano nostalgicamente l’occhio a capolavori irripetibili: c’è molto della sua indole più intima e personale, sensibile e cinica, ruvida e sinuosa, disincantata e sognatrice.
Leggendo le liriche si apprezza in primis una struttura organica originale, data dalla soppesata disposizione dei testi che rimandano a un rumore lieve e squisitamente musicale come quello della rugiada. L’impostazione del volume suggerisce di fatto una continua musicalità: sia per l’ordine di lettura, sia per l’alternanza di pezzi lunghi e pezzi corti, sia per gli enjambement che impongono la musicalità dell’interpretazione mnemonica. Che siano poesie o tracce, poco importante: è il suono a trionfare nell’impatto degli occhi con le parole.
Si evincono, in una rinnovata trasposizione contemporanea, topoi più o meno esplorati come il tempo, la natura, il dubbio, l’incertezza, il sogno. È presente, seppur non ancora esaurita dall’autore nel suo percorso, una diffusa percezione di spiritualità a tratti salvifica e a tratti, invece, liquidata in chiave quasi agnostica.
Nei “dischi” che compongono la compilation di Lorenzo Pistolesi c’è anche la cultura orientale, con discrezione – almeno all’apparenza di chi non la mastica a fondo – inserita nelle cronache versificate di impressioni e sensazioni. Il volume, aperto da una Intro di cui si approfondirà a breve, riporta quattro sezioni: “Mari di libertà”, “Pezzetti d’essere”, “Questo io sono”, “Una goccia di rugiada”. Le prime due insinuano nella loro titolazione una sinestesia concettuale: può il mare, concetto estremamente fisico e chimico, essere non metaforicamente “di libertà”? Può l’essere, concetto ontologico e astratto per eccellenza, considerarsi non metaforicamente a pezzetti? La risposta è affermativa, perché si tratta di poesia.
A concludere la pretenziosa recensio sulle “poesiacce brutte brutte”, come le ha definite l’autore auto-canzonandosi, una nota speciale sull’introduzione: non casualmente ivi collocata perché può assurgere a manifesto poetico di questa piccola brillante raccolta, a partire dalla dimensione di inconsapevolezza gnoseologica, di vuoto e vacuo ricordo. Pare chiara, tuttavia, l’allusione a un’ispirazione – esistenziale, scrittoria, mentale e senti-mentale – che conduce a un bisogno e a una sete di conoscenza, all’intraprendenza obbligata verso una via più capitata che voluta. È questa l’estrema sintesi di ogni singola vita umana, nei giorni in cui rimbomba retoricamente il messaggio del compianto Piero Angela che spiega come non si scelga di nascere, e ci si imponga quindi, quanto meno, di vivere. “Proprio non ricordo / se fui io a volerlo”: dichiarazione d’amore, d’inconscio, di resa e di innocenza. L’innocenza pura del poeta e del bambino, dell’uomo e del fanciullino, dell’essere e dell’esserci, che tornano a unirsi come nei migliori abbinamenti critici.