Giorni or sono mi visitò il pensiero di Manlio Rondoni, che non vedo da anni.
Ed oggi la notizia.
Ho anch'io il mio” Manlio Rondoni da rievocare.
1950, campetto di calcio di San Martino.
Ero un ragazzino sbattuto dalle peregrinazioni postbelliche a Velletri, magrolino, educatino, valutato quasi zero sul mercato calcistico dei frequentatori della parrocchia, nelle partite non ricevevo quasi passaggi.
Manlio mi sembrò maggiore d'età (oggi ho saputo che invece aveva due anni meno di me) per la virilità della sua voce tonante e per la sicurezza del lampeggiamento sfidante dei suoi occhi nerissimi; percepivo che era il tipo capace, senza ricorrere alle mani, e neppure alle parolacce, d'annientarti con uno sguardo.Calcisticamente stava messo bene, era il portiere per eccellenza; e si era costituito in aggregatore dei tifosi milanisti fra i frequentatori del polveroso rettangolo di gioco.
Il fatto che mia madre fosse milanese mi spinse a professarmigli come uno dei “suoi”, e Manlio non disdegnò la mia timida candidatura.
Un giorno organizzammo una sfida “Milan -Juventus”, di tre contro tre. Gli avversari “in campo” (il terzo era in porta) erano i fratelli Di Cerbo, ai vertici delle quotazioni tecniche.
Manlio ovviamente era il “nostro” portiere.
Mi ero piazzato nella metacampo avversaria, sulla sinistra, lontano dal difensore. Manlio indugiò nella scelta di lanciare il pallone a me o all'altro, poi, con uno sguardo allegramente fosforescente che non dimenticherò mai, mi servì perfettamente. Partii dritto in avanti, e segnai.
Altre due volte, quasi per un automatismo, la sequenza si ripetè, e, nonostante la reazione dei Di Cerbo restammo inviolati, 3-0.
Fu quasi un trentennio dopo che ci rincontrammo.
Era stata organizzata una mia dizione d'un poemetto di Majakovskij, e Manlio era stato invitato.
Oramai era un apicale nel campo, anche musicale in piena maturazione delle sue interpretazioni di George Brassens: eppure Manlio anche stavolta non mi disdegnò, mi disse che “tenevo bene la scena”.
Ci incontrammo qualche altra volta, e mai e poi mai accennò alle sue crescentiaffermazioni.
Da sotto l'impeto del suo cipiglio, vergine d'inibizioni falsificatrici, emergeval'intelligente sorriso del valorizzatore.
Mi è difficile trovare nella memoria una tipizzazione più rappresentativa della più vera anima veliterna.
La sua multiforme gloria, alla quale è saldamente raccomandata la sua sopravvivenza nei tempi futuri, mi rende orgoglioso, proprio in questo momento, d'esser stato da lui ritenuto degno della sua amicizia.