“Una settimana”: il paese, i pensieri, il tempo. Intervista all’autore Roberto Candidi

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Dopo “127 gradini a Parigi”, lo scrittore di Lariano Roberto Candidi ha ultimato il suo nuovo romanzo. Scenari diversi, personaggi diversi e anche una differente consapevolezza da parte dell’io narrante che descrive una storia fortemente introspettiva collocata in un arco temporale ristretto. Proprio il tempo, tematicamente, è protagonista concettuale del romanzo in cui si muovono Filippo, Chiara, gli amici e la realtà di un paese. In attesa della presentazione del libro a Velletri, in Auditorium presso la Casa delle Culture venerdì 18 ottobre alle 21, abbiamo intervistato l’autore per scoprire qualcosa in più del romanzo appena arrivato negli scaffali delle Librerie.

“Una settimana” è il tuo secondo romanzo. Spicca un cambio di stile e di registro, rispetto al tuo esordio narrativo. Una mutazione dettata dai tempi o dalla storia?

Il mio primo romanzo 127 Gradini a Parigi era una storia di crescita personale, immerso in un contesto come Parigi, in un lasso di tempo molto ampio. Questo ha influenzato profondamente lo stile; facendo cadere la scelta narrativa sulla prima persona, per trasmettere in maniera diretta tutte le avventure che il personaggio viveva. Con Una settimana, invece, mi sono trovato di fronte a una storia che richiedeva un ritmo diverso. La vicenda si svolge in un arco temporale breve, con eventi che si susseguono rapidamente. Questo ha richiesto un cambiamento non solo nello stile, ma anche nella struttura narrativa. C’è un’evoluzione consapevole anche nel mio modo di approcciarmi alla scrittura. Dopo il primo libro (prima persona), sentivo la necessità di sperimentare, di spingermi oltre i confini che mi ero posto in precedenza. Questo secondo romanzo (terza persona) mi ha permesso di esplorare nuovi registri, di giocare con il tempo narrativo e di entrare più in profondità nelle dinamiche di gruppo e nelle relazioni umane. Se nel primo libro il viaggio era più individuale, in Una settimana il viaggio è collettivo, ed è proprio questa differenza che ha richiesto una mutazione stilistica.

Il libro è un’esortazione alla cura del tempo. La tua vicenda umana e biografica ti ha portato a dispensare questo consiglio, soprattutto ai più giovani?

Una settimana è un invito a riflettere sulla gestione del tempo, e non solo per i giovani. Spesso trascuriamo il suo valore. Il tempo non è solo qualcosa da misurare, ma uno spazio per relazioni, emozioni e crescita. Non va ‘consumato’, ma vissuto pienamente. In questo romanzo, in uno spazio temporale di pochi giorni, possono accadere due cambi drastici nella vita di Filippo, e tutto dipende dalle sue scelte. Decidere i prossimi anni di vita nell’arco di una settimana, quando molte persone non riescono a prendere decisioni per una vita intera. Il tempo diventa più o meno prezioso in base alla nostra capacità di decidere, altrimenti diventa solo un peso. E Filippo decide.

Cosa ti piace del personaggio di Filippo e cosa, invece, non ti piace?

Quello che amo di Filippo è la sua capacità di ascoltare e osservare il mondo che lo circonda, il modo in cui riesce a leggere tra le righe della realtà e immergersi nella propria introspezione. C’è una vulnerabilità disarmante nel suo rapporto con Chiara: non cerca di essere un eroe, ma è umano, fragile, alla ricerca di un amore autentico. Si lascia trasportare dalla magia di una storia idealizzata, con il cuore sempre aperto. E poi, ha sempre la canzone perfetta per ogni momento, quasi come se la vita avesse una colonna sonora su misura per lui. E cosa non mi piace di Filippo? Beh, non saprei davvero. È un uomo così straordinariamente brillante e sagace.

Pavese diceva “Un paese ci vuole…”. Tu sei d’accordo? Quanto è importante la riscoperta della paesologia, per dirla alla Franco Arminio?

Il messaggio di Pavese (anche nel primo romanzo lo citavo con “Un paese ci vuole”) e l’approccio di Arminio si completano: riscoprire il valore di un paese. È estremamente importante per Filippo, lo è nel suo presente, lo aiuta per le giornate di calma e per la montagna, ma nel proiettare la possibilità che il suo paese possa ancora dare qualcosa in futuro, il narratore dice: “Filippo si rese conto che il suo paese non era diventato altro che una sacca di ricordi incapace di generare esperienze nel presente. Occorreva essere maturi e lucidi per non impu­targli più la colpa di non essere in grado di offrire qualcosa di nuovo. Lascialo andare si ripeteva Filippo, lascia andare la speranza che questo luogo possa tornare ad essere ai tuoi occhi come negli anni dell’adolescenza, non lo sarà più”.

Quali sono i caratteri psicologici di Chiara, la donna che sconvolge gli equilibri interiori del protagonista?

Chiara è bella, intelligente e ha la freschezza di una ragazza appena uscita da una relazione. Vuole sentirsi libera e non vuole legarsi, ed è proprio questo che attrae Filippo. Inoltre il carattere metodico e rigoroso di Chiara inducono Filippo a credere che sia proprio lei la ragazza giusta, l’angelo sceso in terra per “aiutarlo”. “Come poteva lasciarsi andare tra braccia di una ragazza lussuriosa e predisposta al divertimento? Filippo cercava l’amore dolce e calmo che acquietava le pulsioni di vita dissoluta e invereconda che lo tormentavano, e aveva idealizzato in Chiara la risoluzione dei suoi “problemi”.

La montagna è una metafora della scalata della vita alla ricerca di risposte. Ma a Filippo consegna effettivamente delle risposte o gli porta in dotazione altre domande?

Filippo non scala per raggiungere necessariamente la cima (anche se lo fa per fermarsi a vedere l’orizzonte), lui cammina perché è consapevole che è lungo il percorso che la vita interiore si muove davvero. Salire per due ore su una montagna porta inevitabilmente a ragionare sui diversi aspetti della vita. Amicizie, famiglia, sogni ecce cc.  La montagna per Filippo rappresenta il suo luogo di preghiera, il posto dove può isolarsi e scandagliare a fondo i suoi desideri. Dove non cerca risposte. Ma dove si pone domande come primo passo per la conoscenza di se stesso.