Vecchie e nuove proposte
Non è facile per un prete invitare i fedeli a riportare su di un foglio riflessioni e osservazioni sulla messa che insieme hanno celebrato. Ho chiesto agli interessati quali sono i motivi di tale difficoltà e in risposta ho sempre avuto un sorrisino carico di incredulità e perfino beffardo, giudicando la proposta provocatoria, perché in alcun modo realizzabile: “dove trovi i fedeli, già frettolosi per le tante faccende che hanno da sbrigare, disposti a sostare un attimo in più in chiesa per ritirare un foglio e soprattutto per riempirlo dopo attenta riflessione?
I sacerdoti che ragionano in questa maniera, a mio parere, dimostrano di non avere fiducia nei loro fedeli, ritenendoli incapaci di mettere per iscritto delle idee, frutto di una esperienza intensa e profonda quale dovrebbe essere la messa. Questa poca fiducia nasce anche dalla convinzione, non espressa magari, che ciascun sacerdote nutre dentro di sé, dinanzi a delle assemblee che assicurano sì una presenza fisica, ma non sempre dimostrano una partecipazione attiva, visto che le loro menti, nonostante i canti e le proclamazioni solenni della Parola, navigano distratte tra i fumi dell’incenso.
I sacerdoti che ragionano in questa maniera, condannano se stessi, riconoscendo indirettamente i propri limiti, talvolta gravi, talvolta responsabili, visto che liberamente hanno scelto di essere comunicatori validi nell’annunciare la Buona Novella. Si fa ricorso in questi casi all’efficacia della Grazia, si dice che questa svolge ugualmente la sua funzione santificante, indipendentemente dalle carenze umane del sacerdote.
Teologicamente può essere esatto il riconoscimento dell’operato della Grazia, al di là dei limiti del sacerdote, ma proprio per questo motivo, mi chiedo, perché mai allora non verificare tale miracolo attraverso le testimonianze dei fedeli. La proposta è chiara, e dal mio punto di vista realizzabile… con buoni risultati.
Eccovi un esempio che aiuta a riflettere.
Messa del 11/01/09 – Fam. S…
Incontrare Don Gaetano è stato come ritrovare un vecchio amico. Molti anni fa nelle campagne di Velletri il catechismo si frequentava ogni anno in abitazioni private messe a disposizione dei parrocchiani. Questo per quel che ricordo avveniva in estate e chiaramente l’aula era una pergola o un portico.
Guai lasciarsi prendere dai rimpianti, quando ciò che avvenne un tempo in nessun modo può essere paragonato a quanto accade al presente. Ogni stagione ha le sue prerogative e il cielo, anche se dall’estate all’inverno cambia di intensità nell’azzurro, puntualmente accoglie il sole che sorge al mattino nei colori leggeri dell’aurora per riposare alla sera dietro le nubi che si accendono di rosso. E il sole è lo svolgersi costante della vita.
Ero viceparroco in quegli anni e la “bianchina”, già troppo corta per le mie gambe, si riempiva miracolosamente di ragazze e ragazzi volenterosi che mai allora avrebbero accettato il titolo di “catechisti”. Le strade che conducevano nelle contrade alte della campagna non erano asfaltate e, inerpicandosi faticosamente tra i vigneti e i boschi, rendevano avventuroso ogni giorno il viaggio.
Allora il catechismo si svolgeva nei mesi estivi, al pomeriggio. Ai bambini di città pensavano le suore, ai bambini che vivevano sparpagliati per la montagna, pensavamo noi: il prete e quei giovani volenterosi.
Con quegli incontri giornalieri che ruotavano ancora attorno alle domandine del Catechismo di Pio X, si portavano i bambini a ricevere tre sacramenti: la confessione, la comunione e la cresima. “Bei tempi!…” le generazioni di allora dicono oggi. E hanno ragione, se, al confronto della loro esperienza, mettono la vacuità dei catechismi moderni che si protraggono per due, tre, quattro anni e talvolta anche più, senza dare, a detta degli stessi esperti, risultati decenti.
Ora incontro di nuovo don Gaetano per la prima comunione di mio figlio, non sotto la pergola, ma in una chiesa dove le messe che si celebrano alla domenica sono davvero speciali.
La prima volta che siamo venuti a messa abbiamo portato con noi il nonno e la mia grande sorpresa è stato vedere il suo disappunto dipinto sul volto. La funzione è stata per lui troppo disinvolta, poco rituale e troppo dialogata. Parlare della giovane che aveva dato alla luce un bambino in ospedale era stato disdicevole, non si doveva mettere a disagio questa donna davanti a tutti. Io ritengo invece che chi vuole far parte di una comunità religiosa in modo vero, sincero ed intenso debba aprirsi al dialogo ed esporre anche i suoi problemi, se si sente di farlo. Mi sono spesso chiesto se seguire un rituale prestabilito sia assolutamente indispensabile in una chiesa. Rivolgersi a Dio a modo proprio con cuore sincero vale forse meno che seguire svogliatamente una messa? Mi è capitato più volte di accompagnare amici stranieri in una chiesa evangelica di Roma (due garage attigui) e lo spirito della Funzione era sempre pervaso da grande familiarità: entrare e salutarsi con gli altri, interessarsi al nuovo arrivato, parlare durante il rito dei problemi di alcuni dei fedeli della comunità è stata come entrare in una vasta famiglia. Questo mi è capitato di nuovo con Don Gaetano.
Un papà
C’è poco da aggiungere, se si ha la buona volontà di aprirsi al confronto sulle diversità che segnano ormai da qualche tempo le realtà ecclesiali, per giungere serenamente a delle conclusioni che potrebbero rivelarsi preziose in campo pastorale.
Alla “pergola”, che ricordo sempre carica di uva pregiata, si sostituisce una chiesa; alle domandine che pretendevano spiegare “Chi è Dio?”, subentra la lettura dei testi sacri con i relativi approfondimenti; allo stare insieme tra bambini, anche nel gioco, si preferisce l’incontro delle famiglie che insieme fanno comunità; alla recita delle solite preghiere che bisognava imparare a memoria, finalmente si sostituisce la messa.
Già, la messa… Quella che mette in crisi i nonni, quella che fa riflettere i papà, quella che fa divertire i bambini, quella che accoglie i fedeli, facendoli sentire tutti dentro una grande unica famiglia.